AGATA DI BELMONT o la religiosa inglese. Milano, Silvestri 1825 ediz. sec. tom. 2 in 12.°
Non giova dire contro questo o simili romanzi, che v'è poco giudizio nel disegno, poca verosimiglianza ne' caratteri e nelle situazioni, poca o nessuna importanza nello scopo, se pur hanno uno scopo determinato. Il vedete: essi passano i mari e i monti, si fanno tradurre in lingue diverse, e anche tradotti così alla peggio si fanno leggere tanto che c'è bisogno di ristamparli. La ragione di questo fatto? L'ozio, forse, il cattivo gusto di chi legge ec. ec.? Può darsi; ma non è sicuramente la ragione unica né la principale. Questa bisogna cercarla nell'esercizio, che i romanzi anche meno tollerabili danno alle più attive facoltà del nostro spirito, l'imaginazione e la sensibilità. Quindi sono accettissimi alle donne particolarmente, che cercano di sottrarsi il meglio che possono alla monotonia della loro vita e a quella nullità morale a cui sembrano condannate. Da qualche tempo, lo veggo, si pensa a fare qualche cosa per loro; si comprende che anch'esse hanno diritto di partecipare ai piaceri della nostra letteratura. Ma, sia che alla buona volontà non corrisponda l'abilità, sia che il pedantismo, il quale manda d'ogni parte un puzzo che ammorba, renda gl'ingegni minori di sè stessi, mentre si promettono alle donne composizioni dilettevoli, non se ne offrono loro, generalmente parlando, che di noiose. Quindi la necessità di ricorrere ai romanzi stranieri, che loro sembrano, io credo, tanto più belli, quanto più li sentono biasimare dai letterati. Ed io, in verità, non so loro dar torto. Poverette! Quante volte, ritrovandomi presente alle loro conversazioni con quei signori, ho udite da loro queste precise parole: voi ci dite che il tal libro (per lo più un romanzo estero, originale o tradotto) è scritto sì male; ed esso ci fa passare dell'ore deliziose: voi ci dite che il tal altro (libro classico, testo di lingua ec. ec.) è scritto sì bene; ed esso ci fa morir di sonno. Giudicando da questi effetti, qual fiducia volete voi che abbiano nel giudizio de' letterati? Mad. Tencin, che chiamava mes bêtes quelli che la circondavano, e che noi perciò chiamiamo una grande insolente, forse non era che più franca dell'altre. Oh il mes bêtes, se i miei occhiali mi servono, l'ho pur veduto spuntare in certi dotti crocchj su molte labbra graziose! Il cuore l'avea mandato fin là; il civile costume lo respingeva ond'era venuto.
Fuor d'Italia i letterati, che sanno scrivere per le donne, si vanno moltiplicando; in Italia speriamo pure che si vadano formando. Frattanto, se si può aspettare qualche cosa, è dagli uomini di mondo, i quali alla conoscenza delle passioni e alla pratica delle cose uniscano una cultura, né scolastica né accademia, né del tutto superficiale. Io vorrei però che i libri per le donne se li facessero le donne; e il perché ciascuno lo intende. I romanzi di sentimento, in ispecie, guadagnerebbero infinitamente, diventando per così dire una loro manifattura privilegiata. Questa frase non si prenda in senso di scherno, com'io li valutassi poco più delle trine o de' merletti. Io non credo veramente che richieggano molto ingegno; ma credo che richieggano molta finezza e molta delicatezza, qualità che nelle donne possono essere perfezionate dall'educazione, mentre negli uomini l'educazione deve perfezionarne altre assai più importanti.
L'Agata di Belmont mi farebbe quasi deridere l'uomo femmina che l'avesse scritta. Ma ci scommetto che l'ha scritta una donna; e la mia sicurezza è fondata sopra alcuni pregi, che vi trovo, e non vi troverei se fosse opera di mano virile. Ho guardato nel dizionario degli anonimi, onde avere qualche schiarimento; ma non v'è che il nome della traduttrice francese, la cui versione credo che abbia servito di testo all'italiana, che il Silvestri (sono sue parole) ci dà ora notabilmente corretta. Cosa sia quest'Agata, ai nostri lettori poco importa saperlo; e le nostre lettrici ne sanno probabilmente più di me. Non sono però abbastanza galante o abbastanza modesto per dire che quello, ch'io ne so, esse lo sappiano meglio di me. Più volte io ho amato sentire il parere delle donne intorno ai romanzi ch'io andava leggendo; e, trattandosi di romanzi veramente belli, ne sono stato quasi sempre contento. Ne' romanzi, come questo d'Agata, il loro giudizietto è probabile che si confonda, perché la loro fantasia divertita e il loro cuore commosso può facilmente ingannarle. La buona Agata è una ragazza, come non se ne trovano in questo mondo; i suoi parenti sono una mostruosità morale, che parimenti non ha modello; gli altri personaggi sono tanto più verosimili, quanto sono meno significanti. Quello che fanno e quello che dicono tutti insieme è corrispondente all'idea che ho data dei loro caratteri. Ma che importa? Malgrado l'impazienza, con cui un uomo, il quale abbia altro da fare, legge il romanzo, sente spesso eccitata la sua curiosità, e si trova talvolta (racconto il mio caso) una grossa lagrima sugli occhi, senza sapere d'onde gli sia venuta. Imaginatevi le povere donne! Cosa poi ci sia da imparare nel romanzo nol so. Pare che l'autore, o l'autrice, abbia voluto far sentire come i sagrifici, che si fanno al dovere, per quanto siano penosi, sempre hanno in sè qualche dolcezza. A principio io credetti che si fosse proposta una lezione simile a quella che si propose il Grossi nella sua Ildegonda. Ma mi sono ingannato; e m'ingannerò tutte le volte che leggerò opere, i cui autori non sanno essi stessi ciò che si vogliano.