CECILIA DI BAONE OSSIA LA MARCA TRIVIGIANA AL FINIRE DEL MEDIO-EVO. NARRAZIONE STORICA DI P. Z. VOLUMI QUATTRO.
Venezia per Francesco Andreola 1829.
Quand'io veggo Richardson condurre l'istoria di Clarissa Harlove per tanto numero di volumi, con sì pochi avvenimenti, che tutto il complesso di quei fatti si ridurrebbe, volendo, nello spazio di tre pagine o poco più; io rimango assai maravigliato di uno scrittore, che fu potente a trovare tanta materia, traendola tutta dall'interno dell'uomo e dai vari movimenti del cuor suo. Clarissa, Lovelace, Belford, miss Howe ed alcuni altri personaggi di quel dramma, mi appariscono com'esemplari creati dall'immaginazione di un filosofo profondo, che non vuole sbalordire nè sorprendere nè piacere col rapido succedersi di varie e strane avventure; ma che si propone d'investigare le più leggere oscillazioni interne di certe indoli d'uomini posti in certi casi particolari di vita, e comporre per tal modo una specie di sottilissima anotomia morale. La nuova Eloisa è un altro solenn'esempio di questo genere di romanzi. Ivi pure quanto accade, dirò così, d'esterno, può essere compreso in poche linee. Quei quattro volumi si aggirano tutti sopra gli avvenimenti interni, cioè sopra le mutazioni e le gradazioni dell'interno sentimento degli attori. Un romanzo di questo genere, per essere ben fatto, richiede necessariamente in chi lo scrive un grandissimo ingegno; un ingegno tutto nutrito dalla filosofia, e specialmente da quella filosofia che si forma collo studio intenso sopra gli uomini vivi. Richiede altresì un sentire che sia nello stesso tempo capace delle più forti impressioni e delle più dilicate; un sentire tanto pieghevole e prontissimo, che possa con facilità e verità mutarsi in varie guise, ed assumere secondo il bisogno quelle che devono avere i tali o tali altri uomini, posti in tali o tali altre singolari condizioni di vita e di fortuna. Tanta difficoltà dalla parte degli scrittori di tali opere, deve rendere necessariamente assai scarso il numero dei buoni. Nulladimeno in Francia, in Germania, in Inghilterra ed anche in Russia se ne contano più che alcuni. In Italia non potrei nominare che Ugo Foscolo, il quale nel Jacopo Ortis, ci diede pur qualche cosa dell'uomo interiore: ma quel romanzo è più notabile per altri pregi che per questo. Anche di quei romanzi che sono destinati a dipingere lo stato attuale della società e ad istruire per tal modo nella pratica del mondo, come il Tom Jones di Fielding ed il Gil Blas di Le Sage, noi non ne abbiamo, cioè non ne abbiamo che si possano leggere. E già nessun popolo può sperare di averne moltissimi, perchè domandano scrittori che si trovano di rado; cioè scrittori che sieno dotati di un'arte finissima di osservare, e che abbiano la volontà e l'occasione, (che non è poco) di osservare continuamente; e tanta potenza nell'ingegno e nella penna da notare e far vedere ogni minima sfumatezza in quei caratteri, che non si distinguono per una loro particolare e fortissima impronta di casi straordinarj di vita o di straordinarie passioni, ma che all'occhio comune si confondono nell'universale degli uomini. Chi desse all'Italia un buon esempio in questo genere di romanzi, oppur in quello che abbiamo nominato di sopra; farebbe certo all'Italia un dono tanto nuovo alla sua letterattura, quanto degnissimo di essere lodato assai ed assai accarezzato.
Ho detto questo; perchè vorrei vedere quella grande potenza a comporre buoni romanzi in prosa, ch'ebbero pur sempre, quantunque lasciata sempre inerte, gl'intelletti e le fantasie degl'italiani; vorrei vederla, ora che si destò con tanto movimento, a non occuparsi tutta nel seguitare la moda dei romanzi storici. Un romanzo storico (e sia pur buono) mi pare alquanto più agevole da farsi ed alquanto meno utile, che un buon romanzo di uno o dell'altro dei due generi sopraddetti. E tuttavia a voler fare un buon romanzo storico, la credo opera piena di gravi difficoltà e di molte; come credo che quando sia ben fatto, possa giovare non poco al popolo che lo legge. Onde, invitando gli italiani ad una maniera di comporre romanzi che a me sembra da preferirsi, non intendo già di scemare il pregio di questa dei romanzi storici. Nei quali, stimo, che senza disputare inutilmente sul genere, sia da guardarsi soltanto (come in ogni altra fatica dell'ingegno) all'intenzione dell'autore e alla esecuzione del lavoro. Già delle buone intenzioni che può darsi uno scrittore, degl'impedimenti che deve superare nel comporre un romanzo storico, e dei pregi ch'esso romanzo deve avere, ho detto qualche cosa nell'articolo intorno all'Irene Delfino. Ora sarebbe soverchio di tornare nuovamente sui generali. Parliamo un poco di questa Cecilia Baone.
[...]
Questo romanzo non mi dà idea che l'autore sia proceduto molto avanti nell'investigazione dell'interno dell'uomo agitato dalle passioni. Non dico che nol sia; dico che il romanzo non mel prova. L'amore di Gherardo furiosissimo non è ritratto quasi mai che per atti esterni; e se il pennello si tinge qualche volta nel fondo del cuore e ci dà colori vivi; mancano generalmente quelle mezze tinte, nel distendere le quali è il sommo dell'arte. La pittura dell'amore di Cecilia, posta in tanto difficili e singolari condizioni, avrebbe richiesto una mano maestra. Qui, a dire il vero, la trovo pittura languida, secca, indeterminata, di pochissimo effetto. Nel rappresentare i caratteri, mi par che l'autore riesca assai meglio: ve ne sono, specialmente fra gli attori subalterni, alcuni di ottimamente disegnati e coloriti, come quello di Bonaccorso e di Maria da Campreto. Ma dove io veggo il merito principale di questo romanzo, è nell'artifizio veramente mirabile, di condurre la narrazione per guisa che senza sforzo alcuno, anzi in modo affatto semplice e naturale, abbracci fatti di quei tempi quanti più poteva, e ci dia degli usi, dei costumi, dei pensieri degli uomini di quel secolo la maggiore notizia possibile. In tal cosa credo che l'autore sia degno di molta lode; e per ciò credo ch'egli abbia composto un libro da potersi leggere con diletto e profitto. Il diletto si accresce per lo stile, che mi sembra scorrevole e vivo, senza matte novità o triviali e straniere frasi; mi sembra corretto ed italiano, senza puerili contorsioni o stolte affettazioni. Chi poi dubitasse del guadagno che il popolo potrebbe fare con la lettura di questo romanzo, consideri che molte barbe di quei vizj da cui provenivano allora sì amari frutti, stanno pure tuttavia nascoste nel fondo dei cuori italiani, e non senza dare di tempo in tempo qualche gran segno di vita: consideri che la civiltà italiana non è ancor tale che non possa imparare qualche cosa da quei nostri proavi; i quali poi non ci curiamo di conoscere, perchè senza conoscerli, vogliamo pur disprezzarli come barbari ed ignoranti. Di ciò che quivi asserisco, potrei scrivere molti esempj e solenni, cavandoli da questo romanzo medesimo. Abbiamo poi pubbliche feste che rendano necessario alle bennate fanciulle di addestrarsi in molti e varj esercizj del corpo, affine di comparire in esse feste con lode di agilità e di vigore? Noi non ne abbiamo: e quei barbari italiani del secolo duodecimo ne avevano di molte e magnifiche, come quella dei fiori in Padova, del castello d'Amore in Treviso, ed altre simili a Venezia e da per tutto. Pensiamo noi a generare prole che sia bella e robusta, non conducendo a marito le giovanette, che negli anni in cui il loro corpo possa sostenere il peso della gravidanza e della maternità? Oh! noi non badiamo a questo: e quegli ignoranti del secolo duodecimo vi badavano molto; e tanto, che credevano disonorevole ad una fanciulla diventare moglie prima che avesse compiuto i vent'anni; e le più non si maritavano che sui venticinque ed anche dopo. E i campi della tenzone, dove li ha la nostra gioventù? oh! io lo so dove li ha... ma non voglio dirlo. In somma, molto potrebbero giovarsi i vivi uomini d'Italia di alcuni esempj di quei loro antichi, se volessero conoscerli ed imitarli. Desidero che il romanzo di Cecilia Baone trovi assai lettori, i quali leggendolo pensino a questo.
BIANCHETTI.