Charles IX, ou la Saint-Barthèlemi tragedie de Chénier. – Théatre de M. I. de Chénier. Paris, 1818.
Vi sono due specie distinte di tragedia: una che ha per iscopo particolarmente di dipingere una data passione umana, coll'intento di farla ammirare, abborrire o compiangere, e in questo caso il poeta tragico trae il suo soggetto da qualunque storia o favola, perchè le circostanze in cui pone il suo soggetto sieno in natura. Vi sono allora certi soggetti che il poeta non potrebbe collocare in un'epoca moderna, e pei quali non solo è lecito, ma è forza ch'egli ricorra all'invenzione o alle favole. Gli argomenti della Fedra, della Mirra e simili non sarebbero sopportati dal pubblico d'oggidì se non fossero tratti da tradizioni favolose. I delirj del cuore umano sono infiniti; noi conveniamo che le più riprovate passioni sono in natura; se credessimo impossibile il disordine di mente che strascina Mirra alla disperazione, lo spettacolo di questa insana fanciulla non commoverebbe nessuno; non è all'odio d'una divinità che attribuiamo lo stato di Mirra, non è al destino, ma è all'ordine delle cose, il quale terribile quanto il destino condanna certi innocenti individui alle più compassionevoli malattie. E come lo studio dell'uomo è ciò che più di tutto c'interessa sulla terra, così non è maraviglia se troviamo spesso un piacere nell'intenerirci o fremere sulle più strane ed orribili passioni. Ma alcune di queste offendono talmente i nostri costumi che il poeta per dipingerle deve coprirle d'un tal velo che lo spettatore scorgendole possa consolarsi dubitando della loro verità.
La seconda specie di tragedia è quella che non ha astrattamente in mira una passione, ma che si propone di ritrarre agli occhi dei posteri alcun grande quadro della storia. Alla prima specie soltanto mi sembra che possa applicarsi il precetto di conservare sempre uniformi i caratteri d'ogni personaggio, essendo là ogni personaggio quasi il tipo ideale d'un carattere, quasi un'immagine allegorica della passione che si vuol dipingere. Nella specie invece di tragedia che chiameremo storica l'uomo che in una circostanza è apparso forte, può col mutarsi di questa circostanza condursi con debolezza; se questa mutazione è tratta dalla verità del fatto, il poeta non è tenuto ad alterare il fatto per osservare il precetto surririferito; egli anzi con questa cieca osservanza nuocerebbe all'effetto. Supponiamo che fosse tragediabile la guerra di Federigo Barbarossa contro i Lombardi. Il poeta che dopo avere dipinto questo principe vittorioso in tutta l'ebbrezza della insolenza, come il più intrepido dei conquistatori, insultando alle rovine della distrutta Milano, lo rappresentasse quindi, alla fine del dramma, fuggiasco per le Alpi, avvilito dalla sconfitta, tremante ad ogni pericolo, divenuto insomma volgare e premuroso più della vita che della gloria, ben lungi questo poeta dall'essere reprensibile, egli sarebbe tanto più lodevole quanto più segnata rendesse la mutazione di carattere operatasi in Federico col mutarsi le circostanze.
Molte altre osservazioni mi cadrebbe qui in acconcio di fare intorno alla diversità delle leggi con cui si hanno a comporre le tragedie della prima e della seconda specie indicate. Ma per non uscire dal divisamento propostomi di parlare del Carlo IX di Chénier, soggiungerò soltanto che sebbene le tragedie della prima specie possano anche essere sommamente efficaci per ispirare l'amore della virtù e la compassione che meritano le umane sciagure, nondimeno la più istruttiva, la più efficace, la più filosofica delle tragedie ci sembra essere la storica; e per istorica non intendiamo quella che ci rammenta senza pro alcuni fatti d'antichissimi annali, ma quella che ci parla sovra tutto de' nostri avi, delle nostre glorie nazionali e dei memorabili delitti onde queste furono contaminate. Vera istruzione si è dessa. Il volgo che non ha tempo di leggere impara ivi i fasti paterni, e gl'ingegni pensanti essendo dallo spettacolo d'un'azione più fortemente scossi che dalla lettura d'un libro, raffinano le loro meditazioni sulle vicende de' mortali, e ne derivano maggior giustezza di critica ed energia di sentimento nella sociale condotta.
Secondo noi è merito sommo in Chénier l'aver concepita l'idea d'una tragedia nazionale come è quella di Carlo IX; la maestria con cui l'ha eseguita corrisponde perfettamente alla sublimità del concetto. Queso poeta francese fu felice nella scelta degli argomenti; sempre i più luminosi caratteri si presentarono nei personaggi di cui assumea la pittura.
Carlo IX salito in trono all'età d'undici anni, palesava fin d'allora una tale inclinazione per le battaglie che facea presagire quanto poco sarebbe avaro di sangue. A 17 anni, pugnando contro gli Ugonotti, egli traversava la Francia dai Pirenei sino a Parigi, dicendo al corpo di Svizzeri che lo seguiva: Combattiamo sino all'estremo; voglio morire re e libero in mezzo a voi piuttosto che essere prigione. Con sì magnanimo coraggio egli malgrado la sua violenza sarebbe stato un eroe, se l'educazione ricevuta da Caterina sua madre e dal maresciallo di Betz, non l'avesse reso bassamente astuto. – Che terribile carattere sia quello di Caterina de' Medici non occorre rammentarlo. Sublime è la prima comparsa ch'ella fa in questa tragedia quando venendo ad accogliere l'ammiraglio Colignì, capo dei protestanti, coi quali i cattolici hanno fatto tregua, ella dice sotto voce al cardinale di Lorena: Lusinghiamo i nostri nemici; non leggano nel nostro cuore; questo giorno vedrà la pace; la prossima notte vedrà il loro sterminio. Questa donna sì padrona di se stessa e del re suo figlio, sì artificiosa nel giustificare tutta la sua iniquità coi principj del macchiavellismo, questa spaventevole eroina della perfidia, quantunque primeggi nella tragedia, è nondimeno governata in certo modo da due animi forti della sua tempra; il duca di Guisa che ha tutta l'energia d'un giovane ambizioso, e il cardinale di Lorena, che, maturo politico, finge sempre di dimenticare se stesso allegando gl'interessi del cielo.
A questi fermi caratteri si contrappongono quello di Colignì, del re di Navarra (che fu poi Enrico IV) e del suo cancelliere de l'Hôpital; tutti e tre splendidi della più generosa virtù, con modificazioni che li diversificano distintamente uno dall'altro. Il vecchio Colignì è reso diffidente dalla sperienza delle sue lunghe sciagure. Enrico qui è ancora giovinetto, ma già tutte in lui traspirano le qualità che lo fecero poi adorare sul trono di Francia. L'Hôpital è quello che all'apertura dell'assemblea degli Stati, nel 1560, avea parlato con tanto zelo per riunire i due partiti che divideano la sua nazione, insistendo perchè si sopprimessero i nomi odiosi di Luterani, di Ugonotti, di Papisti, e non si ritenesse fuorchè il nome fraterno di Cristiani. Egli, cattolico, diceva ai suoi: Nelle sventure della patria, non imitiamo Catone a cui Cicerone rimproverò d'opinare in tempi di corruzione, come avrebbe opinato nei tempi virtuosi della repubblica. Ma i suoi sforzi per ricongiungere le destre nemiche furono vani. I Francesi non s'accorgevano che il fuoco della discordia era soffiato dalla regina che voleva estinguere ogni loro virtù per meglio tiranneggiarli.
Il primo atto contiene la finta pace della corte coi protestanti. Nel secondo, Caterina, il cardinale di Lorena e il duca di Guisa combattono l'animo ributtante di Carlo che ricusa di sterminare col tradimento i nemici i quali hanno deposte le armi. Egli ha un colloquio con Colignì, la magnanimità del quale lo empie di ammirazione e nello stesso tempo d'invidia. Questo sentimento del merito sommo del suo avversario umilia ed irrita l'orgoglioso monarca. Per non avere chi lo superi in grandezza si risolve a farlo perire.
[...]
Per giustificare l'assassinio che si sta per commettere, si aduna un consiglio, dal quale il re cerca l'approvazione d'un editto portante ai francesi l'obbligo di professare il cattolicesimo; chi non obbedirà all'editto sarà reo di morte. Così si potrà dire all'Europa che i protestanti uccisi nella notte di s. Bartolomeo erano ribelli all'editto del re. L'Hôpital ricusa arditamente di firmare il perfido editto. Questo è il contenuto del terz'atto.
Nel quarto, il re agitato dai rimorsi vuol rivocare gli ordini segreti che ha dato ai congiurati.
[...]
A poco a poco, Caterina riacquista la fiducia di suo figlio. Colignì, l'Hôpital, e parecchi protestanti vengono a supplicare il re di spiegar loro che cosa significhino gli ornamenti misteriosi che vengono farsi per la città, e le voci spaventevoli che circolano d'una prossima strage. La regina e Carlo con nera scelleraggine dissipano tutti i loro sospetti adoprando le espressioni più lusinghiere. Rimasti soli i congiurati, Caterina li arringa per l'ultima volta. La passione della vendetta li trasporta tutti.
[...]
La fine di questo quarto atto è sì tragica che sembra non poter più il dramma continuare se non scemando d'interesse. È vero che in certo modo l'azione è compiuta. Si sa che Colignì e tutta la sua setta perisce. Ma non perciò lo spettatore che partisse alla fine del quart'atto, se n'andrebbe pago del dramma. Il cuore s'è affezionato a Colignì; si ha bisogno di seguire fino all'ultimo il destino di quell'infelice. L'Hôpital è quello che viene a versare le sue lagrime di desolazione nel seno del re di Navarra, raccontandogli la morte del loro vecchio amico. [...] Il re di Navarra furibondo contro i traditori non serba più alcun riguardo verso Caterina e suo figlio. Egli predice loro l'esecrazione di tutti i popoli, e una pronta morte al re. Questi turbato dal delitto commesso e dalle parole d'Enrico perde la ragione, e respinge con orrore sua madre, la quale s'affanna per richiamare in lui la pace nel cuore.
[...]
La storia ci narra infatti che dopo la barbarie da lui permessa contro i Protestanti, egli parve tutto cangiato. Il suo sangue trapelava a traverso i pori della pelle; e molti considerarono questa spaventosa malattia come effetto evidente della giustizia divina. Nulla poté risanarlo, e morì due anni dopo il suo delitto, in età di 24 anni. Io non so, diceva egli poco prima di morire al suo chirurgo, non so che mi sia accaduto; mi pare, sia ch'io vegli o ch'io dorma, che mi s'affaccino sempre certi corpi trucidati, con volto minaccioso e fumante di sangue.
È notabile che questo tiranno, sebbene si dilettasse qualche volta di trattare cogli uomini colti, affettava di disprezzarli: Bisogna trattare i buoni scrittori, diceva egli, come i buoni cavalli; cibarli bene. È incerto se questo disprezzo fosse in lui destato dalla viltà dei letterati volgari che lo assediavano con lodi stomachevoli; in questo caso egli avrebbe avuto ragione; ma alcuni vogliono che la coscienza del suo poco merito e delle sue colpe gli facesse abborrire tutti gl'ingegni che erano capaci di giudicarlo.
S. P.