I Prigionieri di Pizzighettone.
I nostri lettori, dopo le cose che abbiamo detto del Gerolimì, si vorranno forse maravigliare che sia da noi collocato ancora più basso questo nuovo romanzo, al quale è pur vero che la pubblica voce nel tempo stesso che lo condannava, si mostrò meno avversa. E certamente se i due romanzi fossero paragonati fra loro in modo assoluto, e dal confronto si volesse dedurre che i Prigionieri di Pizzighettone si stanno per intrinseco valore sotto il Gerolimì, la conseguenza sarebbe falsa ed odiosa: ma se in vece in questi due scritti sarà considerata l'intenzione dell'autore, e nell'uno e nell'altro si chiamerà ad esame quello ch'egli ha voluto fare e quello che ha fatto, sarà ben difficile di non riconoscere che nel secondo romanzo egli è rimasto al di quà della sua meta più assai che nel primo. Il Gerolimì potea parere un error momentaneo dell'ingegno, un breve trascorso della fantasia, di che pur troppo anche presso i più chiari intelletti abondan gli esempi: e forse il pubblico giudizio si sarebbe contentato d'un amorevole consiglio, che allontanasse il romanziero da una specie di componimenti cui non era chiamato, ma quale scusa resterà pei Prigionieri di Pizzighettone, ove si scorge ad evidenza che l'autore lungi dal volersi abbandonare ad una bizzarria, lungi dal tentare un facile scherzo, cercò in vece, e rinvenne un argomento di tutta importanza, e nondimeno in mezzo alle più elette ricchezze dell'istoria rimase ancora nella sua povertà?
Noi ben sentiamo che queste parole sembreranno molto severe, ma chi ci volesse accusar d'ingiustizia, si compiaccia di sospendere per un istante il suo rimprovero, e ci segua ad esaminare con animo veracemente imparziale, per che modo il romanziere abbia saputo corrispondere alla grandezza del suo soggetto. Né si creda che in una tale disamina noi vogliamo ricorrere a quelle dottrine, che per nostro avviso respingono il romanzo storico da ogni buona ed utile letteratura: una siffatta materia fu abbastanza discussa, e troppo sarebbe meschina la critica se dopo aver biasimato in generale il sistema che un autore adottò, si ostinasse a condannarne gli scritti, perché li trova dissimili all'immagine esemplare che le sembra doversi seguire. Le nostre opinioni sul romanzo storico sono palesi, ma appunto per questo, quando abbiamo detto al romanziere che ne duole di vederlo perduto sopra una strada tanto infelice, ogn'altro discorso è a tale riguardo disutile e inopportuno: egli ha diritto che l'opera sua venga giudicata secondo la legge che gli è piaciuto di scegliere, e noi nel parlarne, accettando per un momento il romanzo storico con tutti i suoi difetti, con tutte le sue conseguenze, non altro faremo che indagare senza studio di parte, né prevenzione, se almeno sia provenuto all'autore qualche vantaggio dai privilegi della sua scuola, se almeno la licenza conceduta al suo ingegno gli abbia giovato a produrre ne' lettori alcuna di quelle vive impressioni che non sono poi tanto difficili ad ottenersi, quando si vuole arrischiar tutto per conseguirle.
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Fino a qui si dovrebbe credere che l'argomento si restringesse alla dimora del re di Francia in Pizzighettone; e infatti così l'arte come l'istoria erano concordi nel mettere al romanziere questi confini: l'arte, perché dopo un intero volume tutto occupato di Francesco I non conveniva spezzare la necessaria unità: l'istoria, perché di que' tempi nessun altro prigioniero importante era trattenuto in quella fortezza. E in vece qual è il partito cui appigliossi l'autore? In qual modo ha egli cercato di supplire alla povertà, cui avea condannato il suo soggetto col dividerlo incautamente dalla descrizione del secolo? Questo modo e questo partito sono espressi in due sole parole. Egli aveva un'azione semplice, illustre, commovente che se non altro era proceduta fino allora con un solo interesse, e quest'azione fu da lui repentinamente divisa in due fatti diversi che non sono uniti da alcun legame né naturale, né artifiziale. Egli aveva in Francesco I un protagonista mirabile, il cui carattere si prestava a una dipintura viva e brillante, e questa grande figura storica che potea dominare sì vigorosamente tutto il racconto, fu da lui gettata nell'ombra a confondersi fra una turba d'ignobili personaggi appena degni del melodramma.
Il nuovo fatto che il romanziere aggiunse all'infortunio del re di Francia s'attiene almeno per l'apparenza de' nomi all'istoria di Spagna, ma quali sono gli avvenimenti che narra l'istoria, quali sono gli avvenimenti che finge il romanzo? Noi sappiamo dall'istoria che condannato a morte don Giovani di Padilla per aver mosse e dirette le sedizioni della Castiglia, poco prima di piegare il capo sotto la scure egli scrisse alla moglie che le mandava in legato l'anima sua, come la cosa che ad essa era più cara nel mondo: noi sappiamo che la fiera donna dopo aver ricevuto quel tremendo legato non ebbe più posa, e vestita di negre vesti, e inalberato per tutta bandiera il crocifisso, corse per le vie infiammando l'ira de Castigliani coll'aspetto del figlio suo, che il carnefice avea privato del padre: noi sappiam finalmente che in mezzo a mille dissensioni, a mille pericoli la forte vedova sostenne con virile costanza le fazioni dell'estinto marito, finché abbandonata interamente dalla fortuna dovette fuggirsi travestita a' suoi parenti di Portogallo, ove nel dolore meditò fino alla morte una vendetta che non le fu conceduta. – Ed ora chi crederebbe che questa nobile donna che mai non vide né Francesco I, né l'Italia, questa coraggiosa guerriera che non fu mai in potere di Carlo V fosse dal nostro autore gettata nella fortezza di Pizzighettone a dividere la prigionia del Monarca francese? Chi crederebbe che intorno alla memoria di questa vedova illustre che fu così fedele alla causa dell'infelice marito, fosse condensata una turpe nebbia di secondi amori che la fanno abbietta e volgare? E nondimeno egli è questo, unicamente questo e non altro il bel partito che il romanziere seppe trarre dall'istoria di Spagna. Maria Padilla si trova già prima del Re di Francia nella rocca di Pizzighettone, e gli sforzi che si fanno per liberare lei e Francesco I da quella fortezza, costituiscono tutto il romanzo. A procurare lo scampo di Francesco I intendono Marsilio Fondulo e Stefano Guasco, cui si aggiunge, ma solo in apparenza, Cornelio Agrippa: a procurare la fuga di Maria Padilla s'accordano il fratello e l'amante di lei, cui si unisce per un momento l'assistenza del cavaliere Goffredo. I partigiani del Re s'aggirano intorno alla rocca preparando uno stratagemma che ridoni al Monarca la libertà: il fratello e l'amante di Maria Padilla vi sono già penetrati sotto le vesti di due cavalieri di S. Giovanni che tornano da Marmara, ove dopo la presa di Rodi furono ostaggi di Solimano. – Ecco le due principali azioni che in tutto il corso del romanzo si dividono costantemente ogni interesse, ecco per meglio dire i due romanzi che sono a forza ravviluppati insieme senza aver nulla di comune, tranne il luogo ov'è posta la scena, senza aver un nesso qualunque che almeno per forma valga a rannodarli in un solo e generale concetto.
Il castello di Pizzighettone è custodito in un momento così importante dal generale di Alarson, o piuttosto dalla moglie di lui, nipote del cardinale di Ximenes, superbissima donna, a cui gli anni già gravi e il molto peso dell'etichetta spagnuola non tolgono d'ascoltar volentieri le galanti parole de' giovani. Questi sono i due personaggi che conviene ingannare, e veduta la qualità de loro ingegni l'impresa sarebbe agevole ad entrambi i partiti, se anche per Francesco I come per Maria Padilla non vi fosse altro ostacolo che la vigilanza de' castellani. L'amante della coraggiosa vedova è il più giovane fra i due finti cavalieri di S. Giovanni, e conciliatasi la benevolenza della vecchia Marchesa ne addormenta le cure e può avvertire la sua donna dei mezzi scelti alla fuga, e mandarle gli stromenti che la fanno possibile. Maria Padilla con una mistura chimica è riuscita a render fragili le inferriate della sua carcere e nel giorno convenuto i cavalieri partono dalla rocca per recarsi alle prossime rive dell'Adda, ove strisciando per una gran corda diagonale la prigioniera deve discendere. Ogni cosa va conforme a queste speranze. Maria Padilla assistita da Goffredo compie senza danno il pericoloso tragitto, e ben tosto accompagnata da' suoi liberatori ella si mette in salvo sulle terre di Francia, ove dimentica dell'infelice marito, dimentica dell'età sua che già doveva esser provetta, passa dopo sei mesi a seconde nozze col giovane amante, i cui venticinque anni sono gran balsamo alla memoria delle antiche e delle nuove miserie. – E in questo modo il romanzo di Maria Padilla è finito: ingegnoso, verosimile, STORICO, come si legge nel frontispizio, e come i lettori hanno facilmente veduto!
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E così noi abbiamo trascorsi tutti i caratteri principali del romanzo, tranne quello della infelice figliuola di Marsilio Fondulo, che avvertitamente fu riservato per ultimo, come carattere del personaggio in cui l'autore ha messo il maggiore suo studio. E certamente egli ha voluto questa volta ajutarsi con quanto era nel suo ingegno di più tenero e di più affettuoso, ma tuttavia possiamo noi restar paghi del modo con cui ci venne espressa la disgraziata fanciulla? Abbiamo noi veramente nella povera Maria quella creatura gentile o appassionata ch'ei volle darci, e che nell'assoluta mancanza d'ogn'altro affetto ci era pure così necessaria? Non v'ha dubbio che in tutto il romanzo non è alcuno a cui la nostra pietà sia conceduta più volentieri che alla sventurata Maria, ma in questo sentimento ha egli qualche parte l'artifizio del narratore? Un istinto ineffabile e prezioso tiene preparata nel cuore umano una simpatia per ogni infortunio, e noi già per un santo comando della natura siamo tutti inclinati a compiangere una giovinetta bella, amante, infelice che lentamente si consuma in un amore non corrisposto: ma ben altro è il risvegliare con esagerate invenzioni un momentaneo interesse, come fu sempre agevole anche ai più mediocri facitori di drammi, ed altro è lo scolpirci profondamente nell'anima l'impronta d'un gran dolore, altro è il possedere quella scienza difficile che dal nostro Alighieri era chiamata la scienza del pianto! E la figliuola di Marsilio Fondulo, la Maria del romanziere è fors'ella in sostanza altra cosa che una facile eroina di melodramma? I sogni, i delirj, le profezie che continui in lei si succedono, son essi forse il linguaggio che valga con più potenza a dominare gli affetti? Egli era già un pensiero mal avvisato quello di rappresentarci la fanciulla innamorata del Re, perché la nostra compassione non può essere intera per l'incauta che si abbandona a questo inescusabile amore: ma se pur si voleva condannare la giovinetta a un tanto supplizio, perché almeno in vece di mostrarne quella fiamma già divampante, perché non introdurci con delicato consiglio nel cuor della misera a vederne il nascimento secreto, a seguirne i progressi non avvertiti, a rivelarci lo spavento dell'infelice, quando tutto in un tratto riconosce sé stessa, e il grande incendio trabocca inestinguibile e mortale dall'anima sua? Se non che ad entrare in questo profondo mistero delle passioni avrebbe bisognato ripiegarsi in sé medesimo, avrebbe bisognato meditare altamente: e se l'autore per dipingere il carattere di Maria avesse voluto assoggettarsi a questa grave e penosa fatica, non è egli vero che in vece di metterci innanzi una creazione fantastica, e bizzarramente divisa dalle nostre affezioni, ci avrebbe offerto un essere umano e possibile? Non è egli evidente che in vece di ricorrere alla sua memoria per accozzare insieme la Minna del Pirata e la Chiara delle Acque di S.Ronano, ci sarebbe disceso nelle viscere del cuor suo a trovarvi la donna che tutti volessero amare? Non la inferma di catalepsi, non la scozzese dotata (incredibile a dirsi) della seconda vista, ma la donna italiana, un'immagine vera di quelle donne sì affettuose che seppero inspirare al povero Otway le celebri parole della Venezia salvata, parole soverchiamente profane, ma pure inebbriate di tanta dolcezza = Ah donne, amabili donne, la natura vi formò per ammansare gli uomini: ché senza il vostro ajuto noi saremmo rimasti selvaggi. Per rappresentare la bellezza degli angeli, è forza dipingerli a voi somiglianti: in voi si trova tutto quello che noi pensiamo del cielo: splendore, purezza, verità, gioja eterna e amore infinito. =
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