IL CORSARO, Novella di Lord Byron. Versione in prosa di L. C. - Torino, vedova Pomba e figli, 1819.
Forse non sarebbe inutile il riferire, in lode del traduttore di questo libro, ch'egli è un nobil uomo piemontese, se l'opinione che il lustro dei natali non autorizza all'inerzia nè all'ignoranza non fosse ormai universale. Il gentile ingegno di cui parliamo sente vivamente che per conseguire un titolo alla stima degli uomini bisogna, più che il merito degli avi, attestare il proprio. La versione del Corsaro non è il solo lavoro letterario ch'egli abbia compiuto: da quanto a noi è noto, anche la letteratura tedesca avrà ad essergli grata per la cura ch'egli si prende di farne conoscere in Italia alcune produzioni originalissime. La sollecitudine sua per gli studj è poi tanto più osservabile per coloro che non ignorano com'egli lotti perigliosamente con una salute minacciosa. Secondo noi, il torpore essendo la più fatale delle abitudini che degradano le nazioni, bisogna tener conto di tutto ciò che ai buoni cittadini costa il dare esempio di zelo per la coltura della loro patria. E se si riflette inoltre che in alcuni paesi ed in alcuni tempi presso certe persone l'uomo soggiace ordinariamente al ridicolo, ricusando di vivere inoperoso, si converrà che il rendersi superiore a questo ridicolo, e proseguire nella carriera dei lumi, è proprio delle anime rette e non volgari.
La gloria che si acquista col produrre eccellenti libri originali, sconsiglia molti ambiziosi letterati dal dedicarsi alla traduzioni dei libri esteri. Ognuno vuol pavoneggiarsi del titolo d'autore, e non si considera quanto a pochissimi sia conceduto il dono di scrivere altissime cose; e le mediocri non fruttano gloria ma disprezzo. Da questa presunzione derivarono le invettive che spesso fra noi si sono scagliate contro le letterature straniere: Noi siamo tutti genj creatori, dice il volgo degli scrittorelli, non abbiamo nulla da ammirare sovra i Parnasi lontani; introducendo in Italia la cognizione de' libri inglesi e tedeschi, non si fa altro che corrompere il gusto. E quindi il bell'accoglimento che in certi luoghi della nostra penisola si fece all'autrice della Corinna, perchè osò suggerirci di dilatare il nostro criterio letterario collo studio delle diverse letterature europee.
Facendo conoscere all'Italia il Corsaro di lord Byron, o altro qualunque componimento straniero, non si dice agl'italiani: ecco ciò che dovete imitare, ecco un modello migliore di quelli che possedete! - Leggete, si dice loro soltanto, una produzione d'un genere fra voi non tentato ancora; giudicatela, rigettatene i difetti, ma ammiratene le bellezze, ed ammettete come buono il genere, qualora ivi i difetti sieno dalle bellezze infinitamente superati; se veneriamo Dante malgrado alcune deformità del suo poema, qual diritto avremo di chiamar barbaro Shakespear, perchè egli pure non è tutto gemme?
Il traduttore del Corsaro non ha voluto fregiare del nome suo il libro da lui stampato; ed è nostro dovere il rispettare il suo silenzio. Applaudiremo bensì all'opinione ch'egli porta circa l'utilità che può derivare all'Italia (assai più che non da eterne imitazioni di ciò che i nostri sommi hanno scritto) anche dall'esame di ciò che hanno scritto i sommi degli altri paesi. RIPETIAMOLO: non già per renderci imitatori de' britanni nè de' teutoni, ma perchè, aprendo nuovi orizzonti alla critica, si rende questa più veggente e meno credula alle superstiziose fole della pedanteria; perchè insomma, non dai lumi ma dalle tenebre provengono l'errore e il cattivo gusto - non il molto sapere ma il molto ignorare è barbarie - non coi dogmi ma coll'esame si giunge, in fatto di scienze umane, allo scoprimento del vero.
Se ci siamo spiegati chiaramente, non ci si accuserà, spero, di far troppo caso delle versioni e di chi ha la modestia di consecrarvisi.
Veniamo al Corsaro. Ottimo assunto ci sembra quello d'sverlo recato in prosa italiana, siccome ha fatto il nostro traduttore. La nostra poesia è troppo direttamente derivata dalla latina perchè non sia scabrosissimo il volerla rendere interprete di concezioni così straordinarie come a noi appaiono quelle delle fantasie impressionate da climi molto diversi dal nostro. Di parecchi saggi di belle traduzioni, in versi, della Bibbia, nessuno ne abbiamo veduto che conservi tanto il colorito orientale quanto le traduzioni letterali, e notabilmente la volgata; se un libro portato da una lingua in un'altra perde già molta parte del suo spirito, il tradurlo poi anche in versi, è a nostro avviso, una traduzione di traduzione, e quindi un doppio allontanarsi dallo spirito del testo. Non diciamo con ciò che sia assolutamente impossibile un prodigio; troppo ci è impressa nel pensiero la trionfante Iliade di Monti: ma i prodigi sono rari, ed è inutile citarli quando si discorre dei casi generali. Del resto la poesia lirica è la sola che talora consista per la massima parte nell'armonia del verso: il Corsaro è una novella, e l'interesse di questo genere di composizione consiste precipuamente nel soggetto, cioè nella scelta de' caratteri e degli accidenti.
Il concetto filosofico con cui è stato ideato questo poema si è quello di dimostrare come talora le più nobili qualità del cuore o della mente, quelle che in circostanze favorevoli avrebbero fatto dell'uomo un eroe, si trovano talora raccolte in un individuo spinto dalle sue colpe o dalle altrui in alcuna delle condizioni che sono fra noi maggiormente in orrore. Ben lungi dall'essere questa una veduta immorale, noi la crediamo sanissima, giacchè ella senza diminuire il nostro orrore per le condizioni nocive alla società, ci rende più giusti nel calcolare il merito e il demerito degli individui, e ci fa sentire l'importanza che si deve dare agli sforzi con cui l'umana ragione si va applicando a perfezionare l'edifizio sociale, affinchè niun uomo restando mal collocato, sia costretto di deviare dal bene di tutti per esercitare le proprie virtù.
Il corsaro Corrado regna in un'isola dell'Egeo non lontana dalla baja di Corone. Chi è desso? Il nome suo è famoso e temuto sovra ogni piaggia; ma niuno sa la sua origine. Non s'accomunò con altri pirati fuorchè per comandare. “Brevi sono i suoi detti, ma desto l'occhio e pronta la mano. Non mai egli partecipa con allegria ai gioviali banchetti, ma i suoi buoni successi non permettono ai compagni di badare al suo silenzio. Non mai colmano la tazza pel suo labbro; questa passa a lui davanti inassaggiata - e quanto al suo cibo - è tale che il meno delicato della ciurma lo lascerebbe pure inassaggiato... Ma mentre egli fugge le materiali gioje de' sensi, il suo animo pare nutrirsi di questa astinenza. - Fate vela a quella piaggia! - ed ecco fanno vela... I suoi comandi sono veloci come i suoi gesti, tutti ubbidiscono, e pochi ragionano sul voler suo:- a questi vien diretta una corta risposta; ed una occhiata sprezzante mostra il mal contento - nè si degna di maggiormente rispondere.
Che cos'è mai quella malìa che una masnada sleale e senza legge riconosce con invidia, ma contro la quale riesce vano ogni contrasto? che cosa può essere quel che lega così la loro fedeltà? La magica possanza dell'ingegno!- accompagnato dalla riuscita... la possanza di colui che fa servire la debolezza degli altri uomini al proprio talento; si giova delle loro braccia a' suoi disegni, e lasciando ignorar loro come vi contribuiscano, fa comparire opera sua le azioni più prodi. Così fu sempre - e così sarà - ove splende il sole i molti debbono faticare per un solo! quest'è legge di natura - ma si guardi pure il misero che lavora di accusare o di odiare colui che ritira le spoglie. Se conoscesse il peso di quelle splendide catene, oh! come gli parrebbe leggero quello delle sue umili fatiche!- Dissimile da quella schiera d'eroi, le cui forme divine contrastavano colle azioni, Corrado offeriva nelle sembianze poco o nulla degno di essere ammirato; le ciglia soltanto de' suoi neri occhi adombravano uno sguardo di fuoco: era robusto ma non erculeo - la statura non era osservabile, però colui che lo fissava attentamente scopriva segni d'un essere superiore al volgar de' mortali. Le sue gote erano arsicce; negre ciocche velavano confusamente una pallida ed elevata fronte, e sovente, suo mal grado, le sporgenti labbra tradivano i sublimi pensieri che raffrenava ma che non poteva celare affatto. Dolce la vista...pacato l'aspetto...pur si vedeva qualche cosa ch'egli avrebbe voluto non vista...Il sorriso d'un demonio stava sulle sdegnose labbra - e allorchè l'aggrottato ciglio faceva sentire il peso dell'odio suo, fuggiva ogni speranza.-
Quel cuore solitario è corroso dalle rimembranze di alcuni esecrati anni. Però Corrado non era nato per essere stromento del delitto - l'anima sua era stata guasta prima che si slanciasse a guerreggiare cogli uomini e col cielo. Temuto - scansato - tradito - prima che la giovinezza avesse perduto la sua forza, egli odiava troppo gli uomini per sentire rimorsi, e prese la voce della sua collera per un'ispirazione celeste che gl'imponesse di vendicare su di tutti le ingiurie d'un piccol numero.”
In questo terribile masnadiero non ogni sentimento è perversità. Egli ama un sol soggetto sovra la terra, ma con tutta la potenza dell'anima sua. È riamato con egual passione da Medora; quest'angelica creatura dipinta coi colori più incantevoli in mezzo ai feroci assassini che formano la popolazione di quell'isola, questa donna tutta bellezza e tutta amore in un soggiorno spaventevole, e nelle braccia d'un mostro come Corrado, desta in cuore al lettore un sentimento di compassione indefinibile e supremamente poetico.
I pirati vanno ad assalire le galee del bascià Seyd che galleggiano nella vicina baja di Corone. Il distacco di Medora dal suo amante è commoventissimo.
Il secondo canto contiene l'arrivo d'un Dervis presso il bascià Seyd; lo scoprimento di questo Dervis che era Corrado medesimo; il terrore ch'egli desta trasformandosi in guerriero, mentre sono preda delle fiamme le galee musulmane; l'incendio appiccato dai pirati alle moschee ed al serraglio...Ma quando questo si vede ardere, il corsaro è colpito dalle strida delle donne: “Si corra, grida egli! penetrate nell'harem - e, per la vostra testa, nessuna donna riceva il menomo insulto - sovvengavi che noi pure abbiamo donne, e che si vendicherebbero su quelle i nostri oltraggi. Gli uomini sono nostri nemici, e dobbiamo trucidarli; ma risparmiamo una facile preda. Io posso dimenticare - ma il cielo non mi perdonerebbe se un mio cenno avesse cagionato la morte di un essere inerme. Mi seguiti chi vuole - io volo - abbiamo ancor tempo d'impedire alle nostre anime almeno questo delitto”.- Egli salva dalle fiamme la bella Gulnara, regina del serraglio. Ma i mussulmani rinvengono dal terrore accorgendosi d'essere in molto maggior numero che non i pirati; questi non possono sostenere la battaglia prolungata; sono divisi e tagliati a pezzi, e Corrado è fatto prigione.- Gulnara non ha dimenticato il suo liberatore. Ella aborre l'insolente bascià, e non ha mai veduto un uomo - non per le forme ma per l'espressione e per l'eroismo suo - più seducente di Corrado. Viene nella torre dov'egli giace incatenato per confortarlo e fargli sperare ch'ella otterrà la dilazione dell'apprestato supplizio.
Nel terzo canto, alcuni pirati fuggiti dalla strage recano a Medora l'annunzio della comune sciagura: ella non ha più speranza di riveder Corrado; è manifesto che non gli potrà sopravvivere. Intanto Gulnara offesa dalla gelosia e dai sospetti infami del bascià, ritorna alla prigione di Corrado. Egli rigetta ogni lusinga ed è pronto a soffrire i tormenti che gli sono destinati. La rigida intrepidezza di lui interessa vie maggiormente Gulnara. L'innamorata donna vuol salvarlo ad ogni costo. “In una delle camere, dice ella, - ove dobbiamo guidare i nostri passi, là dorme - colui che non dee risvegliarsi.” Corrado inorridisce all'idea di pugnalare a tradimento il bascià. “Seys è mio nemico, sclama egli; ha distrutto i miei compagni con ferocia ma a forza aperta, e io...No, chi scampa una donna, non toglie nel sonno la vita al nemico.”
Gulnara inebbriata dall'amore per Corrado e dallo sdegno contro il suo tiranno, compie ella medesima l'assassinio. Quando il corsaro, non conscio del delitto commesso da Gulnara fugge con lei e le vede sulla fronte - una macchia di sangue - egli sente un fremito che prima non avea mai conosciuto. “Più volte aveva visto del sangue - e lo aveva visto senza sentirsi commosso - ma allora era stato versato nei combattimenti o dalla mano degli uomini!...Quella macchia, quella leggere ma colpevole striscia ha fatto dalle guancie di Gulnara sparire ogni bellezza.” I due fuggitivi s'imbarcano per l'isola de' pirati. Corrado non pensa che alla sua adorata Medora... “si rivolge - e vede - chi? Gulnara l'omicida! Egli nondimeno rimproverava più se stesso che Gulnara; ben conosceva di esser l'origine della miseria di lei. Era senza voce, cupo ed assorto ne' suoi pensieri. Sentiva un aborrimento per l'azione - ma deplorava l'infortunio di colei.” –
Quei pochi pirati che s'erano salvati dallo sterminio, tornavano ora dalla loro isola per assalire disperatamente i mussulmani, e liberare o vendicare Corrado. Egli li incontra, e la reciproca gioja è al colmo. Nulla a Corrado più manca fuorchè Medora; - ella stessa avrà pietà di Gulnara, e l'amerà come liberatrice d'un uomo tanto amato.- Giungono al lido. Tutto è silenzio e desolazione nella torre signorile; solo Medora non ha acceso i fanali.- Ella era morta di dolore.
“Sorge il mattino - pochi osano interrompere le ore solitarie di Corrado. Però Anselmo lo cercò nella torre. Colà non v'era - nè fu visto lungo la spiaggia. Prima della notte inquieti, attraversarono l'isola tutta. Un altro giorno - poi un altro ancora impiegano in cercarlo, e fanno risonare il nome di lui finchè s'indebolisce l'eco. Per monti - caverne - balze - e valli lo cercano invano, trovano sulla riva la rotta carena di uno schifo - rinascono le loro speranze - lo inseguono sull'azzurra pianura. Tutto è indarno - le lune succedono alle lune, e Corrado non giunge - non giunse da quel dì. Niun indizio, niuna notizia della sua sorte annunzia ove vive la sua angoscia, o dove perì la sua disperazione. Lungamente il compiansero i suoi compagni, e come nessuno sarà compianto mai. Eressero alla sua sposa un degno monumento: niuna pietra ricordevole alzarono per lui, perchè dubbia la sua morte e troppo note ad ognuno le sue gesta. (I) - Egli lasciò ad altre età un nome di corsaro, nome vincolato a una virtù ed a mille delitti.”
Così termina questo poema. La versione ci sembra commendevole in quasi tutte le sue parti. Pochi sono i passi ove si bramerebbe maggior chiarezza di senso; ma è noto quanto il testo medesimo delle opere di lord Byron sia alcune volte mancante di chiarezza, a giudizio degl'inglesi stessi. La lingua del traduttore è, se ne vengono eccettuate alcune rare frasi o parole, correttissima.
A compiere il merito di questo bel lavoro s'aggiunge che anche la stampa e la forma data al libro sono una perfetta traduzione dall'inglese. Questo è, a nostra cognizione, il primo saggio tipografico di questo genere che venga fatto in Italia. L'eleganza delle inglesi edizioni è, se non erriamo, assai più degna d'essere da noi copiata, che non l'eleganza del vestire inglese: la prima almeno è molto più incontestabile.
S.P.
(I) Così interpretiamo noi il verso:
His death yet dubiosus, deeds too widely Known sebbene nella traduzione di cui parliamo leggasi: la di lui morte ancor dubbia, azioni troppo incerte...