[...] Ora, questo intendimento medesimo, di rendere comune quanto è più possibile la cognizione delle storie venete e di farle sapere ed amare anche ai meno vogliosi, si propone, come dice nella sua prefazione, l'autore dell'Irene. Egli si propone questo intendimento: ma vuole raggiungerlo per una strada affatto diversa da quella della Michieli. La Michieli narrò il vero, od almeno quanto si ritiene per tale. Solamente usò il diritto (legittimo) di adoperare quelle parti del vero e quei modi di scriverle, che meglio si affacessero ai gusti popolari. Ma l'autore dell'Irene vuol unire il falso al vero; e da questa unione comporre alcuni racconti o romanzi storici, che stieno ciascheduno da per se con un principio ed un fine, e che ordinati in serie, trascorrino tutt'i secoli della storia veneta, dandone uno per secolo. Egli comincia con questo d'Irene Delfino, il quale si riferisce al secolo VI. Walter Scott ha messo in moda in Europa ed in America tal qualità di lavori, ch'egli cominciava da prima per fuggire la noja del suo ritiro in campagna, e che poi, trovandovi gloria e soprattutto ricchezza, continuò a quel numero prodigioso che vediamo. Manzoni non fu il primo che pubblicasse un romanzo storico in Italia: ma fu il primo che col suo romanzo storico, desse in Italia a questo genere di fatiche un certo credito, e potesse vincere molti di quegl'impedimenti che vi mettevano le radicate consuetudini e gli antichi modi della nostra immobile letteratura. Credo che non fosse tanto la bellezza del libro dei Promessi sposi, quanto la fama di cui godeva già l'autor suo, che abbia messo in andare fra noi questo nuovo genere di composizioni. Certo è che condotti i romanzi storici da tale capitano (si conceda l'immagine) a superare il giogo delle Alpi, essi non solo presero subito stanza assai onorata nelle lettere italiane; ma vi guadagnarono prestissimo molto terreno, in tutta la penisola. Già in tre o quattro anni possiamo numerarne forse più che quaranta; e chi sa quanti altri stanno per uscire alla luce, o si ravvolgono nel pensiero degli scrittori! Io non mi farò a lodare, così in astratto, come buono, nè a biasimare come cattivo, questo genere di opere: penso che possa essere buono e cattivo, come tutti gli altri, secondo l'ingegno e l'intenzione di chi lo adopera. Dei romanzi storici che ajutino il popolo italiano all'acquisto di alti pensieri e di generosi sentimenti, qual è p. e. in gran parte quello della Battaglia di Benevento, io vorrei vederne molti. Dei romanzi storici, dai quali non si cavi alcun utile frutto; io non vorrei vederne alcuno. E già nell'inventare una favola qualunque, e poi tirarvi dentro qualche brano più o men lungo di storia, secondo il tempo ed il luogo della finzione; oppure nel mutare alcune circostanze, in un soggetto storico, nel levarne alcune altre o nell'aggiungerle; io non so veramente che difficoltà nè che utilità vi sia. Ma creare alcuni personaggi ed alcuni fatti; e crearli per modo che si possano naturalmente intrecciare ad altri personaggi e fatti veri; ed intrecciarli in guisa che n'esca una serie continuata di vicende mirabili, con un principio, un nodo, uno sviluppo, un fine; nelle quali vicende il vero storico degli uomini e delle cose non sia punto alterato, ed il finto servendo sempre e piegandosi al vero, lo ajuti a comporre la tessitura di tutta l'azione, e a colorirla e lumeggiarla per modo, che le dia la maggiore potenza possibile a commuovere i cuori e le fantasie degli uomini; la quale commozione sia istrumento efficace a mettere in loro quell'altezza di pensieri, quella nobiltà di sentimenti che giova, in ogni luogo, in ogni tempo e ad ogni popolo, e quelle idee, quei desiderj, quei timori, quelle speranze che possono essere più utili al tempo e nel luogo in cui si scrive, ed al popolo per cui si scrive: oh! questa mi sembra veramente opera dalla quale è da promettersi ogni maggior bene; e nella quale non può mettere mano che un grandissimo ingegno, molto esercitato nella consuetudine degli uomini in generale, ed in quella degli uomini della sua nazione; molto esercitato nella consuetudine delle lettere; ed in quella dello scrivere. Quanto l'Irene Delfino si avvicini a tale idea che io mi formo di un buon romanzo storico italiano, oppur pur quanto se ne allontani; vedrallo chi legge nei pochi cenni che verrò facendo in appresso.
[...]
Questa è in breve compendio la tessitura della favola immaginata dall'autore dell'Irene. A me pare di notarvi subito un difetto non piccolo nella trivialità, dirò così, dei fatti che la compongono. Amori comunali sorti all'improvviso, rapimenti di donne, incendj, burrasche, battaglie, pirati, incessante succedere di strani casi, rapido mutare di fortune e cose simili possono dare buona materia a romanzi, come quelli del Piazza e del Chiari, già destinati a compiacere le più umili fantasie. Ma non saprei quanto bastino a contentare le fantasie di lettori, i quali ragionevolmente vogliono andare allettati o commossi da vicende meno volgari, meno facili ad inventare di queste, meno estrinseche all'uomo e più legate ai movimenti del cuor suo. E già i romanzi storici devono essere opera popolare, non v'ha dubbio, popolarissima; ma plebea, nol credo. Un altro difetto di questa favola (e forse maggiore, se non m'inganno) è quello di non intrecciarsi con ragionevol modo e naturale a quanto l'autore ci dà di storico. Egli di storico ci dà, prima un compendio delle invasioni dei Barbari da Alarico capitano dei Goti fino a Teodorico, il quale conducendo gli Ostrogoti, scacciò dal trono Odoacre e s'impadronì di tutta Italia. Con questo l'autore intende di far conoscere le funeste cagioni d'onde venne un ottimo effetto, cioè la nobilissima ed unica origine della repubblica di Venezia. Diffondere la notizia di questa origine, tentare narrandola, di eccitar nei presenti qualche favilla di quei magnanimi spiriti ch'erano negli antichissimi abitatori di queste contrade, è certamente ottima cosa. Ma narrarla pel solo motivo che la novella la quale si racconta, è avvenuta nelle Venezie; mi sembra che sia troppo poco, a mettere quell'apparenza di necessità nella narrazione, che tolga ogni sospetto di esservi introdotta per forza. Nè una maggiore necessità io trovo in quello che l'autore ci racconta in appresso di Teodorico, di Belisario, delle varie fortune ch'ebbe Italia in quel tempo e di quelle dei Barbari che la opprimevano. Qualche cosa della corte di Giustiniano e degl'iniqui costumi di Teodora e di Antonina è molto più ragionevolmente narrato; perchè ci fa meglio conoscere l'indole di Teodosio drudo di quest'ultima ed amante riamato d'Irene. Ma qui vi ha un male più grande: Teodora era morta, e secondo quel che dice Procopio nella Segreta (cap. VI.) Teodosio era morto pur egli, prima che Belisario fosse mandato in Italia; e Narsete non assunse il comando principale delle armi imperiali in Italia che dopo di Belisario. Tuttavia, a non combattere sulle date, concederò che Teodosio fosse vivo nel tempo a cui si riferisce la presente favola: ma certo era molto vecchio; come l'autore medesimo in una nota, scusandosene, lo confessa. Onde ad ogni modo è inverisimile l'amore d'Irene per lui; com'è affatto immaginaria la sua venuta a Venezia per contrariare i disegni di Narsete. Che il falso si tramischi al vero, è della natura del romanzo storico: ma neppure al romanzo storico si può perdonare, io credo, quando non il finto al vero, ma faccia servire il vero al finto; ed alteri i fatti ed i tempi registrati in istorie solenni, specialmente se ciò avvenga, come qui, in uno dei principali personaggi del dramma, anzi in uno di quelli sopra cui si volge ed aggira tutto il nodo dell'azione. Quel poco che l'autore ci dice sulle arti, sul commercio, sui costumi degli antichi abitatori delle Venezie, traendone il motivo da un giro che immagina fatto da Narsete in compagnia del Candiano, del Gradenigo e del Delfino; la narrazione della varia fortuna dei popoli veneti dalla primissima loro origine fino all'invasione dei Barbari, la quale finge che i nominati personaggi udissero in Costanziaca da un vecchio ottuagenario discendente da Trasea Peto, che vanno a visitare; e finalmente il racconto che ci fa delle vittorie di Narsete, e quello dell'adempimento del voto suo di fabbricare due chiese nell'isola di Rialto, sono tutte parti storiche, che mi sembrano attaccate troppo leggermente alla parte immaginata; la quale, come abbiamo veduto nel compendio, potrebbe stare benissimo senza di esse. Io faccio queste considerazioni: ma non ignoro che l'unire i nomi ed i caratteri tolti dalla storia a quelli creati dalla fantasia, l'unire quanto di vero si narra a quanto si finge, l'unirli per modo che riescano ragionevolmente intrecciati e non separabili senza distruggere la tessitura del dramma, è una delle maggiori difficoltà del romanzo storico. [...]
Tali sono i difetti che si trovano, per quanto io credo, nel disegno o vogliamo dire nella tessitura di questo romanzo storico. Difetti, senza dubbio, importantissimi; e nulladimeno spiacerebbero assai manco, se l'autore avesse voluto occupare l'attenzione dei lettori col mostrare loro alcuni caratteri di personaggi valentemente ritratti, o col descrivere le successiva e varie gradazioni di una qualche forte passione, conducendoli per tal modo allo studio dell'uomo interiore. Non credo che nè anche Walter Scott in tutt'i suoi romanzi abbia superato la grande difficoltà di congiungere sempre bene la storia alle invenzioni: non credo nè pure che tutte le sue invenzioni sieno verosimili. Ma Walter Scott non lascia quasi il tempo di accorgersi di ciò, portando via chi legge con quella sua arte maravigliosa di mettere sotto gli occhi, come fossero presenti, le persone e le cose, e i minimi atti di quelle e i minimi accidenti di queste; con quella scienza che manifesta ad ogni tratto del più leggero oscillare del cuore umano; e con quel suo stile, nel quale ho udito tanti Inglesi che mi dicevano di trovarvi la più esatta obbedienza alle regole della loro lingua, congiunta ad un impasto di colori sempre freschi e vivacissimi. Forse vi sarà chi vegga nell'Irene Delfino qualcheduno di questi pregi. In quanto a me, lo confesso, gli attori di quel dramma mi appariscono dipinti senza alcuna nota caratteristica, senza niente d'individuale, con tratti affatto generali, e però indeterminati e languidi. L'amore d'Irene mi sembra delineato o piuttosto abbozzato in fretta, con rapido mutarsi da uno stato all'altro, senza che l'autore mi voglia o mi sappia dire alcuna cosa dei punti intermedij per cui esso amore passò; nel notare i quali punti, in qualsivoglia delle passioni umane, è lo studio sommo del filosofo e l'arte somma dello scrittore. Darei qualche lode a questo romanzo per lo stile, che trovo generalmente facile, morbido, pieghevole; se nol trovassi anche troppo di frequente scorretto. Esso mi ha faccia di essere come lo stile di uno che ha scritto pur molto; non però in materie letterarie. I dialoghi, parte difficilissima del romanzo storico, nella quale è sovrano Walter Scott, e sì ammirabile Manzoni, non mi danno, a vero dire l'idea che l'autore siesi tanto esercitato a conoscere gl'intimi moti di ogni classe di gente, quanto sarebbe pure necessario a voler rendere sempre naturale, cioè sempre buono, questo arduo genere di lavori. Ma io non posso entrare in maggiori particolari, e nè pure provare con esempj anche le cose che quivi asserisco. Questo articolo è omai troppo lungo: mi crederà chi vuole; e chi non vuol credermi, se ne persuada leggendo il libro. Nel qual libro voglio notare solamente per ultimo ancora un difetto generale che vi trovo, e che mi spiace di trovarvi sovra ogni altro difetto. Non veggo che l'autore abbia dato a questa sua fatica una nobile intenzione. Già nel far sapere ad alcuno quei pochi brani di storia, è piccolo guadagno; minore, quando pur si recasse o diletto o distrazione a qualche altro con la narrata avventura. Ma grandissimo sarebbe il guadagno, se le cose vere e finte che si raccontano andassero ordinate e scritte in modo da tenere desto sempre nei lettori un alto pensiero od un generoso sentimento; il quale si distendesse sopra tutto il lavoro e tutto lo dominasse più o meno manifestamente. In questo è il merito principale della Battaglia di Benevento del dottor Guerrazzi; merito che sparge una vivissima luce sopra le molte bellezze, e che copre o fa scusare le molte macchie di quell'opera. Ad acquistarsi un tal merito dee rivolgere l'animo chiunque scrive; poichè omai tutt'i savj convengono che la letteratura è poco più che una vana ciancia, poco più che un giuoco da ragazzi, poco più che un perditempo da pedanti, se non si adopera quanto può a migliorare gli uomini e a soccorrere i grandi bisogni delle nazioni. Io ripeto spesso una tal cosa, trovando spesso tra di noi la necessità di ripeterla. Ed ora più che mai questa necessità mi preme, poichè veggo molt'ingegni d'Italiani occuparsi intorno ai romanzi storici. I romanzi storici sono opere che per l'indole loro, si piegano di leggeri ad ogni intenzione dello scrittore, e dove l'intenzione dello scrittore può meglio schivare o superare ogn'impedimento. I romanzi storici sono inoltre opere di loro natura destinate al popolo. Che vergogna non sarebbe dunque la nostra, se fra tante di quelle che ne stampiamo o ne stamperemo, molte non se ne potessero mostrare, come veramente italiane, come veramente utili da leggersi pegl'Italiani! Già al solo diletto del leggere provedono abbastanza le traduzioni dei romanzi stranieri.
BIANCHETTI.