[...] Ma si può egli conservare l'istesso linguaggio, allorché si guarda al complesso dell'opera? Si può egli lasciarsi sedurre dall'ammirazione al silenzio, allorché si esamina l'idea dominante di tutto il lavoro e l'impressione morale che ne resta a' lettori? Io racconto, dice il Guerrazzi, una storia di delitti, delitti atroci e crudeli, quali uomini scellerati che hanno in odio il Creatore e la creatura possono commettere, quali appena si stimerebbe che vi fosse orecchio da intenderli, non che anima da divisarli e braccio da eseguirli. Ne questo è un suo vanto che dagli effetti venga smentito: la promessa del Guerrazzi è anzi superata dalla realtà, e quando si sono letti i quattro volumi della sua narrazione, si sente ch'egli non ha ancor detto abbastanza, si sente che proseguendo egli avrebbe a un dipresso dovuto dire ancora così: "Io ho guardato la storia de' popoli, e non ho veduto che tradimenti: io ho guardato la storia degl'individui, e non ho veduto altro che colpe: e in ogni luogo abbominazione e miseria. Gli uomini sono iniqui tutti, ed io lo dirò: l'oppressione è sempre per la virtù, il trionfo è sempre pel vizio, ed io lo dirò. Vieni, o tremenda parola di Bruto morente, vieni sulle mie labbra: e voi accostatevi, o scellerati figliuoli d'Adamo, accostatevi, e prostrate l'anima vostra, perché io voglio calpestarla, voglio pesarle sopra con tutto il peso della mia ira e del mio disprezzo." – Questo e non altro è il terribile senso che di necessità si risveglia nel leggere la Battaglia di Benevento; questa è la conclusione a cui si giugne attraverso gli orrori di cui è composto il racconto: ma chi vorrà credere che il cuore umano sia capace di sopportare senza snaturarsi una scossa sì forte? Chi vorrà credere che si possa con tanta fierezza strappare impunemente agli uomini ogni confidenza in sé stessi e nella virtù? E quello ch'è peggio, un tale concetto non viene già a risultare unicamente dalla serie de' fatti, che sarebbe meno efficace, ma sorge ben anche e più aperto dalla voce viva del poeta, che abbandonato ad ogni istante l'ufficio di narratore si rivolge direttamente in persona propria alle passioni, e con un impeto tutto suo le interroga e le commuove. Né questa sua voce è da riporsi fra quelle che portano seco il loro rimedio nella ripugnanza che ispirano: il Guerrazzi ne tratta assai duramente, il Guerrazzi ci parla il linguaggio della disperazione, ma nelle sue parole più aspre vi è sempre qualche cosa di simpatico, che trova dentro noi una corda che gli risponde, vi è sempre un accento di persuasione che volentieri si ascolta, e può facilmente riuscire contagioso a chi non è salvato da una persuasione ancora più forte. Tolga Iddio che noi vogliamo a questo modo gettare qualche disfavore sopra un ingegno sì nobile! Tolga Iddio che il nostro discorso discenda mai a calunniare le intenzioni del Guerrazzi, che certamente non mirarono a uno scopo sinistro! Ma poiché l'occasione ci si presenta spontanea, perché non diremo noi quello che ci sembra utile e vero intorno allo stato intellettuale e morale, che viene espresso nella Battaglia di Benevento? Il Guerrazzi ci è pienamente sconosciuto; non è quindi a pensarsi che le nostre parole sieno mai dirette contro di lui: ma se anche alcuno ci volesse accusare di tanto, dovremmo noi per questo astenerci dall'adempimento di ciò che risguardiamo come un dovere? Dovremmo noi tradire la nostra convinzione, quando anzi siamo intimamente persuasi che il Guerrazzi stesso nella sua onorata coscienza sarà egli il primo a rendere giustizia al sentimento da cui siamo animati?
La letteratura è l'espressione della società. Questo principio, che un tempo fu soggetto a molte eccezioni, diventa ogni giorno più universale e più certo. Egli è perciò che quando viene in luce un'opera letteraria di riconosciuta importanza, non bisogna arrestarsi a domandare unicamente da che scuola derivi, ma giova più assai esaminare le origini da cui è provenuta, e le opinioni cho rappresenta. E a questa disamina bisogna portare tutta la buona fede e l'imparzialità di cui l'uomo è capace. Non v'è cosa più agevole che classificare la Battaglia di Benevento fra gli scritti di quella scuola, che altri chiamò satanica, altri frenetica: ma qual prò da queste denominazioni retoriche? Egli è facile il lodare senza riserva tutto un ordine d'idee, il biasimarlo è ancora più facile, ma saperlo comprendere questa è la difficoltà somma, e bisogna pur comprenderlo, se si vuol farne giudizio e tentarne il miglioramento. L'uomo nel nativo suo orgoglio non cerca per tutto altro che cause, e Dio per confonderlo non gli permette di vedere altro che effetti. Fino nella letteratura la critica ambiziosa si occupa quasi sempre a considerare l'influenza che un libro può avere sul secolo, e dimentica per intero l'influenza che il secolo esercitò sull'autore del libro: e sì questa seconda ricerca dovrebbe essere la principale, perché tranne pochissime opere destinate con grande animo al giudizio de' posteri, tutte le altre, se non escono da mente affatto puerile, esprimono una serie d'idee dominanti in una parte della società, e il più delle volte il secreto della lode e del biasimo dipende appunto, non dal valore intrinseco d'un libro, ma dal più o meno di corrispondenza ch'ei trova nelle opinioni della massa sociale. Egli è per questo che v'ha bensì un'eloquenza che diremo assoluta, perché viene ammirata anche da quelli che non vogliono esser persuasi, ma questa eloquenza ben è rado che giunga a conseguire il suo intento, mentre in vece è sempre poderosa, sempre effettiva la parola che si contenta di riprodurre in viva e splendida forma le idee di coloro cui parla. Il nostro amor proprio in quest'ultimo caso si confonde con quello dell'autore, e mentre sembra che i nostri applausi siano per lui, non facciamo in sostanza che applaudire a noi stessi. Che cosa si dovrà dunque dire sotto questo rapporto del libro del Guerrazzi? Che cosa si dovrà pensare del favore con cui fu accolto specialmente da' giovani? E quali sono le opinioni di cui il Guerrazzi si fece interprete? Noi, si torni pure a ripeterlo, noi non conosciamo il Guerrazzi, noi non sappiamo neppure se egli abbia voluto semplicemente descrivere lo stato intellettuale del secolo, come il Chateaubriand, quando dettò il suo Renato, o se sia egli medesimo una espressione vivente del secolo istesso, come il Goethe, allorché scrisse i suoi Patimenti di Werther: ma questo è pur certo che la Battaglia di Benevento è la pittura più terribile, e ad un tempo la più vera, che sia finora comparsa in Italia, di quello stato deplorabile in cui cade l'uomo abbandonato a sé stesso e alla superbia della sua inefficace ragione: miserissimo stato che noi vogliamo considerare un istante, perché forse un consiglio di benevolenza non sarà inutile ad alcuno dei tanti infelici che vi consumano affannosamente la vita. E ai giovani in ispecie, anzi per ora ai soli giovani saranno dirette le nostre parole, perché già lo spazio ne manca a più largo discorso, e perché in loro sopra tutto, che sono la porzione più cara e più preziosa del genere umano, deve concentrarsi ogni sollecitudine di chi pensa all'avvenire ed ama gli uomini. – Che cosa sono oramai una gran parte de' giovani? Qual è lo stato del loro cuore? Qual è la mira del loro intelletto? E sono essi veramente felici in quella loro età beatissima a cui il presente e il futuro soleano presentarsi così belli e così animosi? Questa è la domanda che cento volte noi abbiam ripetuta, e la risposta pur troppo fu sempre la stessa: quella medesima che col suo libro ci ha data il Guerrazzi: No, non siamo felici. E una risposta sì dolorosa non ci venne già da quegli scioperati o viziosi di cui non giova parlare, ma sì dai migliori e dai più intelligenti, da quelli che fanno ogni sforzo per usare nobilmente i ricchi doni della natura. E infatti come mai potrebbero essi arrivare a felicità, se ingannati sulla loro destinazione vanno errando nel tenebroso deserto della vita senza mai gettare uno sguardo su quell'unico raggio che può illuminare i lor passi? Essi non sono appena entrati nel mondo che un Genio malefico li avvicina, e opprimendo de' suoi clamori quella voce tenera e affettuosa che vorrebbe salvarli, li prende per mano e li getta in mezzo al tumulto sprovveduti d'ogni consiglio, e senz'altra guida che il loro intelletto e il loro orgoglio. Andate, ei dice colle parole istesse con cui un giorno egli parlò al comun nostro padre, andate: ché la scienza del bene e del male è già vostra, e voi sarete simili a Dio: sapienti e felici. E i miseri gli credono, e affrontano coraggiosi la strada, e dimandano avidamente alla vita ciò che la vita non ha. Ma quanto dura questo fantasma ingannevole? E qual è lo stato d'un giovane di forte ingegno e d'anima ardente, quando al delirio d'un breve sogno succede la lunga vigilia del disinganno? Egli ha cominciata appena la prima e la più bella parte della sua carriera, ed è oramai stanco, e oramai pensa che la meta del corso è ben lontana dal meritare la gran fatica che costa: deluso in un aspettazione che non poteva compirsi, tradito in un desiderio che tutto l'universo non basterebbe a saziare, egli si dibatte continuo fra gioje senza felicità, e dolori senza conforto: il suo ingegno è già stanco e non produsse ancor nulla: il suo cuore è già esausto, e non ebbe ancora passioni. Disgraziato! Egli dimanda quale sia la sua vocazione sopra la terra, e fra quelli che gli stanno intorno non v'è alcuno che gli sappia rispondere. Lo studio de' libri gli diventa insoffribile, perché lo affatica senza occuparlo: lo studio dell'uomo gli riesce un tormento perché gli manca la parola del grande enigma, e senza questa parola ogni nuova scoperta è un nuovo terrore. Scoraggiato da ogni parte, contrariato in tutti i suoi vani progetti egli non vede altra alternativa che l'odio degli uomini o la solitudine: l'odio, il più penoso sentimento della natura, la solitudine, la più gran nemica dell'Essere intelligente, quando non viene Iddio a consolarla. Infelicissimo, qualunque sia la scelta a cui s'abbandona! Se egli si ferma in mezzo alle agitazioni del mondo, i suoi fratelli gli sembrano altrettanti nemici, la sua dura esistenza non è più altro che una lunga e compassionevole guerra, troppo misera guerra, se egli soccombe, ancora più misera, se egli trionfa. E se ignorando i sacri vincoli che lo legano all'umana famiglia, ei fugge in sé stesso a cercar pace nell'anima sua, quanta non è ugualmente l'angoscia che gli sta preparata? Può egli essere felice l'uomo che tradisce la sua missione, l'uomo che diserta il posto in cui la Provvidenza lo ha collocato? Ah non vi sia chi s'illuda in questo bugiardo pensiero! Non vi sia chi si lasci ingannare dalla tranquillità apparente, che qualche volta accompagna le tristi speculazioni d'una mente solitaria e concentrata in sé stessa! Quell'apparenza è una nuova sciagura: la guerra sarà forse meno romorosa, meno violenta, ma pace, nessuno lo creda: se anche si gridasse mille volte pace, è una crudele menzogna, un artifizio per respingere l'umiliazione d'inspirare pietà: non v'è pace per lo sventurato che vive senza cagioni di vivere, per lo sventurato che morrà senz'aver compreso l'ineffabile mistero della morte, senz'altra consolazione al gran passo, che un terribile dubbio: il dubbio in quel solenne momento in cui tutto sta per diventare certezza. – E in effetto che cosa può fare il giovane confinato nel breve cerchio de' suoi dolorosi e incerti pensieri, il giovane, cui l'età breve non concede ancora la vita delle memorie, e un'afflizione insanabile ha già disfatta per sempre la vita delle speranze? Quale sarà la sua situazione, se l'anima propria, che gli era data come un benefico asilo, in cui potesse alcuna volta raccogliersi a riprendere forza pel mondo esteriore, gli è in vece divenuta un luogo d'esiglio, il solo campo, in cui gli è permesso di esercitare la sua attività? L'anima umana per un qualche istante può compiacersi nel contemplar sé medesima, ma guai se questa diventa la sua unica occupazione! Guai, se nata alla cittadinanza dell'universo ella presume di potersi sola bastare! Somigliante a quello sciaurato de' mitologi, che in punizione delle sue colpe fu ridotto a divorare sé stesso, anche l'anima dell'uomo divisa dal suo vero alimento è costretta per così dire a nutrirsi della sua propria sostanza, e in un ozio, che non è riposo, si consuma di lento dolore. E se mai viene il giorno di qualche gran prova, se giugne non preveduta l'ora, in cui il giovane visitato dall'infortunio deve scuotere da sé questa cupa melanconia dell'intelletto cento volte più grave che quella del cuore, dove troverà egli la forza, che pur gli occorre per combattere colla sventura? Appena uscito dall'inesperienza della solitudine, con quali armi, con qual consiglio potrà egli affrontare la realtà delle cose? E se gli manca il necessario vigore, se gli manca ogni fiducia in sé stesso e negli altri, e perfino la volontà di resistere, quale sarà in tanto abbandono il partito che gli rimane? Noi tremiamo nel dirlo: il partito unico della disperazione: gettare con superbo disprezzo la vita, o ravvolgersi nel mantello ad aspettare i colpi della fortuna e morire. – Questo è lo stato in cui dettando il suo libro si pose il Guerrazzi, questa è la miseria, cui egli ha condannato tutti indistintamente i suoi personaggi, questa è la malattia indefinibile, da cui interrompendo ad ogni tratto il racconto volle mostrarsi afflitto egli stesso. E almeno, sebbene anche ciò fosse troppo arduo a compirsi senza pericolo, almeno nell'esprimere questa situazione penosa dell'anima umana, avess'egli fatto conoscere che ne intendeva l'estremo dolore, almeno avess'egli fatto di quando in quando sentire che quel tormento non si aggrava sull'uomo, che per propria sua colpa: ma qual profitto poteva egli sperare da' suoi fieri concetti, se l'uomo è sempre rappresentato come la vittima d'una cieca fatalità che sovrasta a tutti e non perdona a nessuno? Quale utile avviso voleva egli che si traesse dalla sua narrazione, se quel cruccio mortale è offerto come il retaggio irrecusabile dell'umana natura, se in ogni sua parola, in ogni suo pensiero egli accarezza e promuove quel sentimento disperato che odia e dispregia la vita, il sentimento più di tutti pericoloso, perché gettando l'uomo nell'ultima abbiezione lo persuade ancora di farlo grande e magnanimo? La intenzione del Guerrazzi sarà buona, lodevole, santa, ma gli effetti a cui è riuscita son essi tali? Ed era egli degno del suo forte intelletto, che discendesse a lusingare le passioni e a renderle più gagliarde e più seducenti col prestigio della sua bella ma disfrenata poesia? E se in presenza d'un tanto danno morale è permesso di toccare una parola del nocumento che da somiglianti lavori proviene al sano gusto in fatto di lettere, come mai non ha egli veduto a che infimo stato si riduca la letteratura, quando lo spirito umano è ingannato ad entrare in questo obliquo sentiero? Noi non vogliamo citare esempi conosciuti anche troppo, ma v'è egli alcuno amante della gloria italiana, che non rifugga all'idea di vedere introdotti anche fra noi i mostruosi delirj che prevalsero presso altre nazioni? V'è egli alcuno che possa senza ribrezzo pensare, che la letteratura abbia ad essere strascinata anche in Italia, come altrove, in mezzo all'orrore de' teatri anatomici e de' cimiteri, senz'altra scelta che la trista compagnia de' mentecatti e degl'idrofobi, o l'atroce spettacolo del carnefice sopra il suo palco? Ah noi vogliamo sperare, che la patria di Torquato non vorrà scambiare con queste luride infamie i suoi belli giardini d'Armida; ma il Guerrazzi perché ha egli voluto prestare l'autorità del suo esempio a chi osasse tentare un mutamento così deplorabile? E come mai nel potente suo ingegno non ha egli compreso, che ben più nobile e più pura sarebbe stata in ogni rapporto la sua gloria, se avesse presa una strada diversa, la strada direttamente opposta a quella ch ei preferì? Forse, come ad ogni istante ei sembra volerci far credere, forse nel dettare il suo libro ei non fece altro che significare l'affannoso tormento dei suoi pensieri, ma se anche ciò fosse vero, sarebbe ella questa una scusa da potersi accettare? Noi compiangiamo altamente il Guerrazzi, se tanta è l'infelicità dell'anima sua, noi desideriamo con augurio amico, che i suoi mali finiscano, ma quando l'uomo è ridotto a una tal condizione, non gli è più permesso di scrivere: egli deve tenersi dentro la propria angoscia, egli deve seppellirsela tutta nel cuore, e se è pur necessario, saperne morire in silenzio, ma comunicarla altrui co' suoi disperati lamenti non gli è conceduto. Non gli è conceduto per quell'intima dignità, che insegnava financo ai gladiatori di ricevere il colpo mortale senza mandare un sospiro; non gli è conceduto, perché a voler istruire, o dilettare gli uomini bisogna amarli, e non li può amare chi vive in uno stato di così fiera violenza. Oh quanto sarebbe riuscito più alto e più decoroso il suono di quella forte parola, onde la natura ha privilegiato il Guerrazzi, se egli in vece di arrestarsi a una picciola rissa colla fortuna avesse saputo con gagliardo animo sollevarsi al disopra di tutti i suoi mali! Oh quanta riconoscenza gli sarebbe dovuta, se in vece di consumare il suo ingegno ad esprimere gli spaventi della disperazione e dell'ira, egli avesse proclamato con fronte sicura quelle verità immortali e benefiche da cui dipende la vita del genere umano, quelle verità, che nella scuola del dolore s'imparano così facilmente, quando l'uomo ne accoglie le severe lezioni con umile e religioso intelletto! – Sì, o giovani di buona fede, cui l'errore di false dottrine ha ingannati, sì o giovani virtuosi, che la perversità della seduzione ha renduti infelici, noi vogliamo dirlo, e conchiudere in questa idea il nostro discorso: Il Guerrazzi avrebbe potuto farvi un gran bene col diffondere tra voi un sentimento di speranza e d'amore, il Guerrazzi avrebbe potuto essere il vostro vero amico, il vostro consolatore; ed è appunto il non averlo voluto, l'essere anzi corso in parte contraria, che forma a' nostri occhi la sua più gran colpa, la colpa a cui nessuna gloria di poesia può acquistare perdono. Ma se egli ha ricusato per ora di compiere un ufficio così giovevole e caro, un ufficio che forse un giorno sarà da lui vivamente cercato, non vorrete voi intanto ascoltare per un solo momento un'altra voce cento volte più debole e meno efficace, ma non meno franca e assai più amorevole, una voce sconosciuta, che s'innalza dalla folla a gridarvi, non i suoi proprj consigli, ma le fidate parole dell'esperienza?
Il mondo intellettuale e il morale giacciono, come un tempo il mondo fisico, in un inesplicabile caos, se il gran pensiero di Dio non viene a gettare la sua luce in mezzo alle tenebre. Guai a chi coltivando o le scienze, o le arti, o le lettere non vi cura di fecondarle con quest'idea prodigiosa! Ella è soltanto quest'idea, che raccogliendo a unità tutto ciò che forma la vita dell'ingegno e del cuore, leva tutte le contraddizioni, risolve tutti i problemi: ella è soltanto questa mirabile idea, che dà un significato all'Essere intelligente, e tramuta in un conforto le afflizioni dell'umana sapienza. Non credete, o giovani troppo facilmente delusi, non credete né a coloro, che collocando i motivi della vita nella vita medesima vi propongono uno scopo che si diminuisce ogni giorno, né a quelli, che respingendo con finto ossequio la religione nel santuario vengono indirettamente ad esigliarla dal mondo. Ogni vera virtù è religiosa; ogni alta letteratura è religiosa. Tutti gli uomini sommi, veracemente sommi, d'ogni tempo e d'ogni nazione hanno proclamato questa gran verità; e voi ascoltatela, o giovani: ascoltatela, perché si tratta di tutto, anche della gloria, se questo è il pensiero che vi fa scorrere più arditamente il sangue giovanile dentro le vene. E la gloria sarà accompagnata da quella sicurezza dell'intelletto, da quella confidenza del cuore, che sole rendono possibili le grandi azioni e i concetti sublimi. Scuotetevi una volta d'intorno quelle malvage dottrine, che somiglianti a un freddo veleno arrestano ogni movimento dell'anima: ripigliate una volta la vostra bella giovinezza, ripigliatela in tutto il vigore della sua ispirazione. L'entusiasmo è il nobile sentimento che alla vostra età si conviene: riprendetelo il sacro entusiasmo, che vorrebbe quasi chiamarsi la poesia della religione e della virtù. Miseri sinché avete voluto applicarlo a un mondo materiale che non ne era capace, voi sarete felici, quando avrete rivolto a quell'eterno Principio da cui vi è disceso. Né vi spaventino i clamori e gli scherni di una moltitudine avversa: non vi spaventi la grande fatica che vi costeranno i primi passi della nuova carriera. Coraggio, perché voi andate a una meta che mai non fallisce. Il monte è coperto di nebbie, il cielo è ingombrato di nuvole, gridano gli abitatori della palude: ma stolti, sono essi, che vivono circondati di nubi e di nebbie: la sommità del monte, gli spazj del cielo sono sereni. E quando voi, o giovani, sarete giunti a quella invidiabile altezza, quando lassù voi avrete imparato, che la scienza, la virtù e la religione sono tre raggi d'una medesima luce, oh allora scrivete, perché quello è il momento di scrivere: scrivete, e lasciate pure che l'invidia e la malignità sperimentino le loro forze, mettano in opera le loro pessime frodi. Certamente voi dovrete ancora soffrire e combattere, perché siete uomini, e questa è la vita. Ma in che vi può nuocere una guerra così dispregevole? Voi avete trovato quel prezioso aroma che impedisce alla scienza di potersi corrompere, e se anche il voto de contemporanei dovesse mancarvi, egli è ben facile sopportare una breve ingiustizia, quando ricusato il tumultuoso giudizio delle passioni si può contare con sicuro animo sulla sentenza riparatrice de' posteri.
Ω