La Battaglia di Benevento, Storia del secolo XIII scritta dal Dottore FR. D. GUERRAZZI. Livorno, Bertani 1827, vol. 4 in 12.°
Due considerazioni, senza più, faremo sopra questo romanzo, che s'intitola Storia: l'una spetta alla filosofia della storia, l'altra alla filosofia morale. È conceduto all'oratore di ammettere alcuna volta certi fatti, che il popolo tiene per veri, benché sien falsi a giudizio de' critici: è lecito al poeta venderci per cose incontrastabili le sue bizzarre fantasie; onde potrà, come l'Ariosto, citare il verace Turpino, a confermare qualche strana avventura. Ma se un autore, in que' luoghi, ne' quali dichiara seriamente di non voler farla da oratore né da poeta, elegge fatti favolosi, s'adopra di renderne convinti i suoi leggitori; ovvero a' fatti veri aggiugne particolarità favolose, o tratte dalla fantastica ignoranza del popoletto, in tal caso quello scrittore fassi reo di gravissima colpa; essendoché il corrompere artatamente la storia, egli è avvelenare una fonte, che dinanzi sgorgava limpida e pura a ristorare i cittadini. Or mi faccia ragione il sig. Guerrazzi medesimo: come non aborrì egli dal rimettere in campo quella favoletta del piede che Papa Alessandro pose sul collo dell'Imperator Federico I.° in Venezia l'anno 1177? "Questa istoria (così egli risponde l. 153) è riputata dai moderni storiografi una favola; senza però che ne abbiano esposte le cagioni; almeno per quanto mi sia venuto fatto di poter ricercare." Bastava ch'egli ricercasse gli Annali del Muratori, e agevolmente veniagli fatto di trovare le cagioni.
Più stravagante è la cura che si prende il Dott. Guerrazzi di farci credere, come verace storia, alterata dai moderni scrittori, che il giovane Re Enrico rapisse da un monistero di Palermo Costanza, monaca professa, né giovinetta, ma donna di senno, come colei che aveva i suoi 50 anni, e la si sposasse lietamente; ed ella "vicina a partorire, fece tendere un padiglione sulla piazza, e mandare un bando che qual donna volesse andare a vederla sì il potesse; come pure che in Palermo si mostrò sempre col seno scoperto, onde la gente ne vedesse distillare il latte (vol. I. 158)." Non sono questi gli esempj che l'illustre Manzoni diede a' Romantici.
Maggior difetto si è l'altro, che all'etica risguarda. Gli uomini non furon mai né tutti buoni, né tutti scellerati; ma v'ebbe sempre copia degli uni e degli altri. E però, ove io m'avvenissi in persona, la quale non volesse lasciarsi dar ad intendere, che qualche azione fan gli uomini per amore di onestà, o di religione, ma volesse perfidiare che tutti gli atti umani si mettono ad effetto per cagione d'interesse, d'orgoglio, d'invidia, o di altra rea passione, direi francamente, costui essere un perfettissimo scellerato, od esser preso dalla pazzia della disperazione. Il nostro Romanziere vede gli uomini tutti d'un colore; perfidi, superbi, vili ec. ec. Se non può condannar l'opera, si gitta a mostrarla generata da prava intenzione. Questa malizia notò il Tiraboschi in qualche scrittore francese de' suoi tempi; e lo Schlegel trovolla condotta a grado supremo nelle opere del Byron, chiamandola perciò la poesia della disperazione. Ascoltiamo alcune parole del Guerrazzi: "Fu il diroccamento di Milano operato da mani italiane. Questa era la carità della patria nei nostri padri! Né ciò dico per dimostrare che noi siamo migliori; ma essi non furono meno scellerati di noi: iniqui tutti (l. 144)." Orribili sono le seguenti (l. 113): "Da tutto il creato maledizione e sventura su te vilissima schiatta, che non sai vivere, né ardisci morire!.... Chi più vive è più scellerato." Come s'ingegni di torcere le intenzioni, vedasi a pag. 116, vol. I. Corrado III sentendosi presso al morire, chiamati a se i baroni di Germania, consigliavali che a successor nell'impero non gli dessero alcuno de' figli suoi, sì Federico; giudicando dover questo principe recare alla Germania de' grandi vantaggi. Che dice il Guerrazzi di quest'azione di Corrado celebrata come uno dei pochi fatti che onorano la nostra specie? Inclina a credere che Corrado per una ipocrisia politica facesse sembiante di donare quello che non poteva impedire.
Conchiudo: questo romanzo non può far cadere altra lagrima dall'occhio a bagnar la pagina, se non che la lagrima dell'uom dabbene, il quale pianga le stravaganze di un giovine, che datosi in balia ad una troppo vivace immaginazione, travolta dalla lettura del Byron, più non ravvisa nell'uomo che la perfidia e la disperazione; quella convertita in natura; questa serbata per unico retaggio. Noi però confidiamo, che siccome i più assennati degl'Inglesi inorridirono a quella disperazione del Byron, così i savj Italiani, né sono pochi, getteranno lungi dalle lor mani questo nuovo libro, che ha fatto tesoro di quello che parve terribil pestilenza agl'Inglesi.