Les Patriciens, histoire de la fin du XVI.ᵉ siècle d'après d'anciennes Chroniques, traduite de l'Allemand par C. F. VAN-DER-VELDE. Paris, Renouard, 1826 in 12.
Un vecchio tedesco, uomo del popolo, veggendo una leggiadra e giovinetta sua figlia trescare alquanto liberamente con un giovane signore, rivolto al seduttore: “Ce sont-là (diceva) les suites de ces damnées d'histoires d'amour, qu'on devrait absolument défendre aux femmes de lire... c'est là qu'elles apprennent à bâtir de beaux châteaux en l'air: elles y trouvent toutes les passions peintes des plus belles couleurs, et avant qu'elles s'en doutent, leur honneur est bien loin.” Queste parole leggiamo nel cap. 2 del romanzo les Patriciens; e non intendiamo come potesse mai, chi scrisse così savie parole, spender la sua vita a metter insieme de' romanzi. Ma l'uomo è talvolta definito, animale di contraddizione. Qui molti leveranno la voce contro di noi, e faranno prova di persuaderne l'utilità de' Romanzi Storici; e la noja, in che si troverebbe la gentil metà del genere umano, se non potesse piacevolmente ed utilmente dar qualche ora del giorno alla lettura. Noi non vogliamo già vietare alle femmine di legger alcun libro; e ne abbiamo udito nominare delle valenti in lettere; ed una ne abbiamo conosciuta, che agli uomini insegnava dalla cattedra in celebratissima università la greca favella; ma siam fermi in questo, che non bene si provveda alla prosperità del mondo con tanti romanzi storici, che producono di molti e strani capogiri ne' giovani e nelle signore. O, queste sono le sentenze del vecchio Goldmann ne' Patrizj del Van-der-Velde. Sono, e che perciò? Ma che rispondete a coloro che vi dicono: tant'è; il secolo non può comportare cotal severità: i lumi progrediscono, né resteranno pel gridar de' pedanti. Che rispondo? Udite due parole del vostro Van-der-Velde: "Ne pas parler, c'est souvent répondre clairement (I)." Baje, soggiungono: col romanticismo la nostra letteratura, quando che sia, sarà patria: seguitare i Greci ed i Latini non è che imitazione cieca e superstiziosa. Adunque ricopiare Scott e Van-der-Velde e Cooper, tradurre Schiller e Goethe e Byron è dare all'Italia una letteratura nazionale: specchiarsi in Omero e Virgilio, in Demostene e Cicerone è perpetuare in noi la superstizione delle lettere! E poi faranno querele i Romantici perché il Botta, li chiamò ragazzacci e traditori della patria? — Ma i Greci erano romantici, chi mira oltre la corteccia. Grazie della scoperta; solo desideriamo che a bene intenderne il pregio, ci diano la definizione precisa ed ingenua della Letteratura romantica. Essi ne fanno un mistero; ma rifiutano quella che si trae dalla famosa lettera del Botta. Benché di rigettarla non hanno giusta cagione. Infatti non ci dicono e ripetono sempre, che la gioventù italiana vuole il romanticismo? Non iscrivono forse esser questo un nobile desio che arde i giovani petti? Ciò posto, non è tanto fuor di proposito il vocabolo di ragazzacci; benché il peggiorativo potesse ommettersi. Oltre a ciò; non ispregiano essi i Romantici e il Petrarca, definito ultimamente uno dei fuchi della letteratura; e il Boccaccio deriso qual maestro di far periodi col verbo in punta; e Dante stesso così mal concio dal Villardi; dappoiché questo scrittore lasciate le tende del classicismo si è ricoverato sotto il bivouac di David Bertolotti (I), e degli altri romantici? Or coloro che alla gioventù danno consiglio di gittare i principali scrittori di lor nazione, per copiare servilmente i parolai delle selve caledonie ed ercinie potevano esser chiamati a buon dritto traditori della patria. Laonde mitigando alquanto le parole del Botta, a lui dettate da un caldo ma generoso sdegno, si potrà definire il romanticismo: la letteratura de' giovani nemici delle cose patrie. Forse questa definizione, così temperata, non lascerà di essere spiacevole a molti; ma in tal caso dovranno metter fuori una volta la vera definizione, che eglino così gelosamente custodiscono; e di custodirla aver debbono gravi motivi. — Vorrei per altro che i nostri Romantici, allorché parlano di cose letterarie non si mostrassero cosi digiuni della logica. A me avvenne nello scorso ottobre di trovarmi in legno con due giovani, e con essi ragionando, ut meus est mos, di cose pertinenti agli studj, mi venne udito dall'uno di essi: la letteratura di Grecia era greca: perché quella dell'Italia non sarà italiana? Ottimamente, risposi: ma Walter Scott, ma Cooper, ma Vandervelde, che sono ricopiati; ma Schiller, e Kotzebue, che vengono ridotti ad uso del teatro italiano, non sono italiani. Come dunque potrà da tronchi scozzesi, americani, tedeschi, pullulare una letteratura tutta italiana? Sorrise l'altro del farfallone logico del suo compagno; e volendo mutar discorso prese a parlare del vino d'Asti, alla qual città eravamo già presso; e così ebbe fine la conversazione letteraria.
(I) Les Patriciens, chap. VII.
(2) Ved. Villardi Epist. IV nelle appendici.