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Nella Nemica di sé medesima l'autore ci mette dinanzi una civetta (così la chiama egli stesso) che nella sua vedovanza, non parla che di mode, di feste, di amori, di conquiste, lusinga gli uni, seduce gli altri, promette amore, giura costanza, vuole che tutti gli uomini siano suoi schiavi, e ride quando rapisce gli amanti alle sue amiche. Poi la madre di una giovane a cui questa civetta ha rapito l'amante, la quale per vendicare l'offesa si vale di una cameriera raccomandandole di rappresentare con maestria la parte di cameriera d'una civetta. Se vengono (dice) proposte di amanti fanne relazione, interessati, ascolta tutto, accetta regali se te ne vengono offerti, procura di scoprir terreno, avvisami e sii sicura dell'amor mio e della mia riconoscenza. E così la ragazza, che ributtata dalla scandalosa condotta della padrona vorrebbe abbandonarla, sta pei consigli di questa madre ai fianchi di quell'astuta, e diventa, senza sapere il perché, cooperatrice delle sue frodi. Si è pensato già da gran tempo a bandire dalle tragedie i confidenti, personaggi non necessarj e quasi sempre nojosi: perché non vorremo sbandire dalle commedie le servette che sono d'ordinario qualche cosa di peggio? Oltre di ciò fu detto, e non senza ragione, che a forza di veder sul teatro figli discoli, indocili che poi si ravvedono e sono accolti al perdono; giuocatori disperati che all'ultimo conoscono la propria rovina e diventano buoni massaj; mogli infedeli e traviate che poi ritornano pentite al viver domestico ed all'osservanza dei loro doveri; vedove capricciose, fantastiche che dopo avere lungamente abusato della libera loro condizione, si riconducono al diritto sentiero; a forza di veder tutto questo la gioventù ne ha cavata una morale molto pericolosa, facendo ragione da tanti esempi, che le passioni non si possano vincere nel loro bollore, e che il soffocarle non sia necessario, perché viene poi naturalmente per tutti l'ora del ravvedimento, e quando essa è venuta, ciascuno si affretta di perdonare al traviato le sue colpe, e di cancellarne per fin la memoria. Quindi la virtù quieta e costante, una condotta sempre illibata, una coscienza che non ha nulla da rimproverarsi, perdettero nel giudizio dei più il loro pregio; e l'eroismo della virtù fu collocato nel ravvedimento: come se la vittoria dopo la sconfitta fosse più gloriosa! Non vogliamo dire che la commedia del signor Casetti appartenga veramente a quelle di cui qui parliamo, ma qual è il frutto del vedere una civetta che si fa gloria di adescare quanti adoratori più può, che s'innamora dello sposo promesso di una propria cugina, e vuole rapirglielo a costo che l'infelice fanciulla ne muoja dal dolore; che poi abbandona la sua preda affascinata dalla speranza di sposare un gran principe, e che finalmente trovandosi ingannata nelle proprie sue arti si tramuta dalla città ad un suo podere, dove ripiglierà forse la sua vita di prima? Anche qui poi si trovano due cose che furono forse nel mondo di una volta, ma ora non sono per certo: l'una la facilità con cui l'autore suppone che la sua vedova, dando improvidamente pienissima fede a poche ed oscure parole, s'immagini di essere desiderata in isposa da un principe; l'altra la babbuaggine di que' rivali che tutti a un'ora prefissa convengono nella casa di questa vedova per sentire a quale di loro essa accorderà la sua mano.
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