NOVELLE INEDITE. T. II. - Venezia presso Giuseppe Orlandelli 1822. in 12. di fac. 130. (Vedi nel Quaderno XII. di questo Giornale alla facc. 281.)
Bellissimo è il principio, bellissimo è il fine di questo secondo elegante volumetto offrendo sì l'uno che l'altro una leggiadra novella di Francesco Negri, nome caro alle muse, ed alla repubblica letteraria. Narrasi nella prima con quanta valentia Pietro Cionca, astutaccio contadino siasi goduto alle spalle d'un suo compatriotto vaccajo, che condottoselo a Verona, e datogli a credere non potersi ivi senza troppo gran pena deporre il superfluo peso del corpo, consiglialo a scaricarlo in una sporta, indi additalo come contrabbandiere agli sgherri. Questi lo inseguono, ed uno miglior corridore degli altri ebbe ad invescarsi le mani in quell'imbratto ancora caldo, e fumante. Narrasi nell'ultima di Ezzelino, che fattosi per le brutture d'un chiassetto portatore d'un amante della sorella, seppe frenar lo sdegno, e si contentò di rampognarlo con pungente motto. Memorabile generosità in un tiranno!
Il soggetto di quest'ultima novella non è dei più facili da trattarsi senza che restino offese le leggi dell'onestà; ma chi crebbe come il ch. sig. Negri alla scuola de' buoni autori acquista una certa nobiltà di favella, che veste acconciamente ogni qualunque materia. Di ciò fa prova anche la prima Novella di argomento fiatoso anzichenò: ma tratteggiato da quella mano maestra t'alletta, ed al riso t'invita. E ti dipinge quello scimunito del vaccajo, che nulla più. Odi fra l'altre cose con quanta grazia, e venustà di lingua e' ti racconta, che "venti volte o la Becca, o la Togna, od alcun'altra foresozza, che ve n'aveano nel contado delle piacevoli e delle festanti parecchie, sentivansi voglia di ridere, incontrandolo per istrada lo arrestavano, e buon dì, e buon anno gli dicevano, Giannucolo mio dolciato, e così per amorezza il tiravano per lo ciuffo, o trattosi di testa lo spilloncin d'oriente, il punzecchiavan nel braccio, ed e' gongolava tutto, e facendosi bello a tutte proferevasi per damo, nè perchè avesse mai la gambata, storcevasi pur un poco, ma, come scempiato ch'egli era, messe le prime nel dimenticatojo ad altre volgeva il cagnesco suo amore". Autore della II. novella è il Sig. Antonio Toaldo. Un tale calzasi di soppiatto un pajo di scarpe non sue: vassene alla caccia col padrone di esse, e rosicandogli la pelle priega il compagno a volerle tagliare in un certo luogo. Questi avvisando di lavorare sull'altrui, il fa, ma scoperta poscia la ruberia mena gran romore, che termina (oh miracolo!) in una cena. Perchè simiglianti celiuzze giungano a piacere bisogna supplire colla vivacità dello stile alla pochezza dell'argomento. Non così povera di accidenti è la terza novella del sig. Gherardo de' Rossi. Tu leggi in essa un piacevole fattarello da farti convincere che dalla compassione all'amore non avvi che un passo. Il racconto è semplice e naturale, proprietà che sembra mancare all'intutto alla IV. Novella di Autore inerte, in cui descrivesi la curiosissima morte d'un canarino, e le smanie dell'orbata educatrice. Non basta. La tanto raccomandata brevità, od economia del discorso non si osserva per nulla. Massimo difetto di non pochi moderni, a cui gioverà il ripetere la sentenza di Seneca. Le parole, dic'egli, vogliono essere sparse a guisa della semenza; la quale, comechè sia poca, molto fruttifica. Leggansi a riconoscimento del ver questi tre primi periodi che a parer nostro hanno del superfluo più del dovere. "In città, capo di repubblica, una famiglia vi è capitata da paesi che stanno oltramare, quivi poi avuta in molta considerazione. Sono passati alquanti secoli, da che ci venne, nè altri rimane di quella che un solo signore, il quale Antonio si ode chiamare, e di cui la moglie è detta Franceschina. E comechè siano omai sedici anni andati, che in matrimonio vivono, Franceschina non è venuta a partorire che due soli figliuoli; Teresa che nacque nel decimo mese, da che le nozze si erano strette, e Francesco che nacque nel secondo anno: il quale se prima nato fosse, Teresa forse non si sarebbe avuta, spesso volendo usanza di quella città, che quando è nato lo maschio, si cominci a digiunare in maritale pudicizia". La quinta Novella di Autore anonimo si aggira intorno ad un ingegnoso rubamento fattosi ad un taccagno medicante. L'argomento non è nuovo: ammiriamo per altro la chiara sposizion della cosa, e la lingua che adora di quel venerando trecento, senonchè le troppo frequenti parentesi spezzano i periodi, e ne guastano l'armonia. Eccoti una sesta novella, ed eccoti un altro rubamento. L'autore n'è il sig. Antonio Caffi, il quale per assai bel modo t'instruisce, che due perdigiorno addocchiate parecchie quaglie pendenti da un poggiuolo entrarono in pensiero di ungersene il grifo. Si fece loro compagno uno scioccherello, che allo scoccar della mezza notte ascesa una scala portatile balzò nel poggiuolo, donde ad una ad una gittava al basso le quaglie uccise. Terminata la carnificina si accinse alla discesa, ma invano, perchè gli amici sottostanti trasser la scala, e lasciatolo al rezzo notturno avviaronsi sgangheratamente ridendo all'osteria. Non fa noi il raccontar minutamente l'avvenuto, ne basti il riferire che lo sciagurato quaglicida venne ivi scoperto, e da mano femminea (ahi! vitupero del miglior sesso) ben bene carminato, e che gli altri due vennero strettamente dai famigli legati nel punto che già già stavano per sedere a mensa, onde divorarsi la grassissima preda. Ma taluno sclamerà: dalla lettura di questo componimento e da quella de' suoi fratelli che apprenderò io mai? = Se stolto, nulla, se saggio, molto. Scherzerai fra i vezzi e le lascivie del parlare italiano, ti comporrai a letizia leggendo fatti scherzevoli e strani, per entro ai quali potrai scorgere non poche verità utili a guidarti nell'intralciato sentiero di questa selva salvaggia. Apparerai, per tacer dell'altre, dalla novella testè accennata che mala cosa è il legare amistà co' cattivi, e che anch'essi bene spesso vanno per sonare, e restano sonati.