Sibilla Odaleta. Episodio delle guerre d'Italia alla fine del secolo XV. Romanzo istorico di un Italiano (in continuazione alla Biblioteca amena ed istruttiva per le donne gentili). — Milano, 1827, presso Antonio Fortunato Stella e figli.
Parlando del romanzo di Alessandro Manzoni noi abbiamo fatto osservare, come la sola notizia che l'autore dell'Adelchi, il poeta degli Inni sacri scriveva un romanzo, avesse nobilitata questa carriera e tratti alcuni chiari intelletti ad entrarvi: ora aggiugniamo senza punto sconoscere il merito di chi dettò il Cabrino Fondulo e il Castello di Trezzo, che fra quanti finora ubbidirono al tacito invito del Manzoni, il primo posto dee concedersi a questo sconosciuto autore della Sibilla Odaleta. Anch'egli, come gli altri, s'appigliò al difettoso genere de' romanzi storici, e peggio ancora che gli altri, avviluppò senza consiglio e senza profitto il vero col falso; ma questo errore gravissimo è compensato da tante doti, che sarebbe scortesia il non voler ravvisare la manifesta vocazione dello scrittore a questa maniera di studj.
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Ognuno vede che questo romanzo appartiene interamente alla maniera di Gualtiero Scott, e una tale somiglianza sarebbe ancora più manifesta, se nel brevissimo nostro sunto avessero potuto entrare alcune particolarità, che dovemmo escludere per non interrompere la serie de' fatti. I caratteri in ispecie sono quelli che più ricordano l'autore del Wawerley [...], e forse lo ricordano troppo. Camilla, Abele Malvezzi, il general Lodovico e Lucilla sono i personaggi più importanti, e loro si aggiugne un mugnajo di San Germano, un medico Sangioveto, due ebrei, il vecchio Geremia e il fanciullo Miran. Il principe Federico, Annibale, e il figliuolo di Odaleta Demetrio non presentano alcuna sembianza propria che resti fissa nell'animo, e questo è veramente un gran danno pei due ultimi, che avrebbero potuto con molta utilità adoperarsi. Camilla è una zingara, che venuta alle nozze d'un uffiziale albanese, ed entrata, per così dire, nella comune civiltà ritenne ancora gli usi e le superstiziose opinioni della sua vagabonda tribù: il suo linguaggio, oscurato da continue voci astrologiche, sorge di frequente ad affettare la misteriosa grandiloquenza degli antichi profeti: le sue azioni sono franche e risolute, ed ogni suo passo tende senza mai deviare a quella meta che raggiunta la farebbe morire d'angoscia. Il concepimento di questo carattere, se potesse dirsi nuovo, sarebbe molto felice, e sopra tutto dovrebbe grandemente lodarsi quell'alternare di senno e di delirio, che sparge una tinta così melanconica sulla misera donna. Ella non è pazza, ma i pregiudizj dell'infanzia rinforzati da un profondo e lungo dolore hanno raccolta tutta l'anima sua in un'idea unica ed immutabile, che gli è sempre dinanzi, e questa idea l'assale qualche volta con tanta forza, che la ragione per quel momento n'è vinta. Chi potrebbe non trovare estremamente drammatica questa invenzione? Ma in pari tempo chi non pensa tosto alla Meg Merrilies dell'Astrologo, che uscita dalla medesima famiglia degli zingari si abbandona agli stessi delirj? L'imitazione è troppo evidente, e quello ch'è peggio, la bellezza dell'esemplare soverchia di gran lunga la copia; quando invece Camilla infiammata dall'amore materno, e spinta da un odio tanto più violento e più giusto di quello di Merrilies doveva di molto intervallo lasciarsela addietro.
Anche pel Malvezzi l'autore ebbe sotto gli occhi Isacco del Ivanohe, ma come non mirò a questo solo, e concentrò nel suo Ebreo anche l'alchimista del Kenilworth, e il Sherlock del Mercante di Venezia, il personaggio gli riuscì originale, e senza confronto il più importante, e il meglio scolpito di tutti. Noi pensiamo che qualunque scrittore potrebbe contentarsi d'aver disegnato questo carattere, che dalla prima all'ultima parola è sempre costante a sè medesimo, e può dirsi un perfetto tipo d'ogni malizia: perfino le azioni, che sembrano oneste, sono in lui prodotte da un sentimento vizioso, quasi che la stessa virtù passando per quel perfido cuore venisse a tramutarsi in delitto. L'avarizia è la prima fonte d'ogni sua infamia, ma da essa gli scaturiscono tutte le più vili passioni, e in sommo grado il bisogno di vivere a costo d'ogni codardia, a costo d'ogni misfatto. I lettori vedono tosto, come un indole così perversa sia imaginata in modo da poter presentare i più gagliardi contrasti tanto con sè stessa, che con gli altri personaggi virtuosi del romanzo; e in fatti è forse questa la parte più lodevole dell'opera, nè in alcun luogo è maggiore il diletto, che dove il Malvezzi risoluto di voler vivere a qualunque patto conta ad una ad una nella sua mente le monete d'oro, colle quali spera allontanarsi dalla strozza il laccio che già gli è mostrato. Nè vuolsi qui dimenticare l'ingegnoso artifizio con cui sono dati gli ultimi tocchi a questa figura: molti erano i modi con cui poteasi condurre in perdizione il Malvezzi, e apprestargli un degno castigo; nessuno però sarebbe stato più opportuno di quello che ha trovato l'autore. Il Malvezzi non credette mai alla virtù, e in tutti gli altri uomini non volle vedere che alcune vittime, e una turba di complici, e appunto questa opinione, che gli mostra un ribaldo anche nel Duca di Mompensieri, è quella che lo strascina all'ultimo danno, e ad una morte che non poteva essere con più fino accorgimento trascelta. I suoi delitti meritavano ogni supplizio, ma anche pei grandi colpevoli, quando sono raggiunti dalla pubblica vendetta, evvi una specie di misericordia che per un tanto malvagio bisognava evitare. Egli muore, ma la sua sentenza non è pronunciata da un tribunale terreno: il terrore e i rimorsi fanno un sì fiero strazio di quel vigliacco suo petto, che ogni umana giustizia giugnerebbe troppo tarda, saria troppo pietosa. Se il Malvezzi non moriva così, sottentrava un'alternativa troppo difficile: o Lucilla gli otteneva il perdono, e ci restava il dolore di vederlo impunito, o Lucilla non voleva intercedere, e la nostra benevolenza per lei era grandemente scemata.
Nel romanzo non è alcun personaggio, che per eccellente virtù possa far riscontro alla reità del Malvezzi, ma come tutti gli altri, tranne il piccolo Miran, in diverso grado son virtuosi, sarebbe ingiusto il lagnarsi, che troppo riescisse preponderante la parte del vizio. Il Generale Lodovico è modello di fedeltà verso il Principe, e la bontà del suo cuore leale e compassionevole sorge più evidente dalla soldatesca rozzezza d'ogni suo fatto. Lucilla è un'amabile fanciulla, così felicemente temprata dalla natura, che persino l'alito velenoso di quel giudeo non potè offuscarne la candidezza: ella è presa di vivissimo amore, perchè i miseri, e abbandonati conoscono soli tutta la forza di questa passione, ma il suo affetto è nascosto nel cuore profondo, e in un desiderio senza speranza vive di sè medesimo e d'un primo soave pensiero, come la lucerna sepolcrale nell'aria immobile della morte ardeva inconsunta senza nuovo alimento. Per buona ventura i lettori sperano per lei, e il successo corona i voti, che ogni anima gentile ha formati per questa infelice.
Il mugnajo di San Germano, il dottor Sangioveto Geremia, e Miran sono figure secondarie, ma tutte furono presentate con mano maestra: soltanto ne duole, che i due primi dopo essere comparsi nell'entrata del romanzo promettendo d'accompagnarci per esso, si ritraggano tosto per non comparire di nuovo, che un breve momento. Era assai facile l'adoperarli al nodo ed allo scioglimento dell'azione, che con dispiacere è affatto indipendente da loro; e certo debbe increscere ad ogni lettore il vedersi fuggire così presto quel medico gioviale, che si dichiara così francamente amico della pace e dell'onesta allegrezza.
Geremia e Miran sono ebrei, come il ribaldo rapitore di Lucilla, ma ai palesano ancora più dissimili pei costumi, che per la diversissima età. Il buon Geremia sembra messo nel quadro unicamente per non confortare coll'esempio del Malvezzi l'universale pregiudizio contro i figliuoli d'Abramo, che dopo aver compiuta la grande testimonianza sono pur destinati a diventarci fratelli: il piccolo Miran al contrario è già raffinato nella malizia, e s'egli prosegue, come pare, ad ascendere la scala, per cui è salito il Malvezzi, non gli può fallire il laccio, che per costui restò inoperoso. La furfanteria di questo fanciullo è descritta con molta vivezza, ma non per ciò possiamo darne gran lode all'autore, che qui pure, come avvertimmo per Camilla, andò troppo servilmente sulle orme del romanziere scozzese. Senza il Flibertigibbet del castello di Kenilworth noi non avremmo il Miran della Sibilla Odaleta.
In complesso tutto questo romanzo è un imitazione dei varj lavori di Gualtiero Scott, ma noi non temiamo d'asserire, che chi sa imitare così, fidandosi meglio al suo ingegno può meritare un giorno d'essere imitato egli stesso. La narrazione procede sempre chiara e abbastanza spedita, gli avvenimenti si legano con ordine e naturalezza, e il dialogo è in generale degno del suo grande modello. Per verità intorno allo stile potrebbe farsi alcuna grave osservazione, in ispecie per ciò che risguarda i primi capitoli, ma ci sembra che questo solo cenno abbia a bastare per un uomo che annunzia di metter ora i primi passi nella carriera letteraria, e si manifesta nel igore dell'età giovanile. Così pure noi non gli diremo che una parola per consigliarlo, che se vuol continuare, come lo Scott, a premettere un epigrafe poetica a' suoi capitoli, ne offra i versi de' nostri grandi Italiani, e lasci da parte quegli sciagurati anonimi che qualche volta citò.
Invece era nostra intenzione di favellargli più a lungo per tentare, se forse ne fosse riuscito di allontanarlo dal romanzo storico, cui ne pareva inclinato; e volevamo col suo esempio stesso mostrargli, che la parte meno felice dell'opera sua è quella appunto, ov'egli si fa narratore dei pubblici casi. Ora però noi abbiamo felicemente saputo, che questo medesimo amichevole ufficio non è più necessario, e che il lodato autore della Sibilla Odaleta s'è già accorto di per sè, che un'altra strada più illustre e più secura gli è preparata davanti.
Possa la sua Fidanzata Genovese, che sta ora per pubblicarsi, compire i nostri voti, ed appagare le giuste speranze che di sì nobile ingegno ha concepite l'Italia!