Un Papiro, ossia i Gladiatori nella caverna del Vesuvio del sig. A. N. M. — Venezia, 1826, tipografia Andreola, in 8.°, di pag. 197, lir. 2. 61 ital.
Saremmo tentati a dir bene di questo Papiro, il quale non è in sostanza se non che un romanzo, quando non avesse tre difetti imperdonabili. Il primo è di avere falsificati calunniosamente e gratuitamente i caratteri della storia, poichè nè Lucullo, qualunque torto possano fargli la violenza e la cupidigia, peccati a lui comuni colla maggior parte de' personaggi romani più celebri, non diè prove d'essere stato sì vigliaccamente maligno, come l'autore qui lo dipinge. E similmente può concedersi a Metello quanta vogliasi mai indulgenza verso una figlia, se l'ebbe, ed anche più se l'ebbe unica; ma per tutto ciò che sappiamo di lui, dal carattere suo fu troppo abborrente una debolezza, che l'autore gli dà in tanta misura da rappresentarcelo como un vero scimunito (I). Sara lecito, se ciò vuolsi, fondare de romanzi sopra nomi storici; ma non alterare di siffatta maniera il carattere d'uomini eminentemente illustrati dalla storia. Il secondo difetto consiste nel non vedersi in questo o papiro o romanzo conservata la convenienza de' costumi, del tempo e del popolo, a cui l'autore suppone pertinenti i suoi personaggi. Egli confonde gli usi e la civiltà romana de' tempi poco anteriori alla dominazione di Cesare cogli usi e colla civiltà de' tempi nostri. Delle quali cose facilmente si convincerà chiunque legga questo romanzo o Papiro, per poca attenzione che vi metta. Il terzo difetto sta nella scandalosa violazione di ogni più volgare convenienza della lingua italiana. Nè vogliamo qui alludere a certe o scorrezioni o difformità di voci, le quali nello stato generale della nostra coltura dovrebbero ormai andare a carico de' correttori delle stampe, anzichè degli scrittori; dappoichè nulla è più facile quanto che questi tutt'intesi a dettare ciò che la eccitata immaginazione loro inspira, non badino troppo alla minutezza della locuzione, gl'inesatti modi della quale possono senza molta pena togliersi alla semplice lettura di ogni scritto. Di queste scorrezioni e difformità abbonda cotesto Papiro. [...] Ritornando poi all'autore del Papiro, noi crediamo di doverlo querelare per quella troppo lunga serie di barbarismi, che in non più di 197 pagine di alquanto grosso carattere difformano quest'operetta: i quali sono ben altra cosa che le scorrezioni e i neologismi dai Puristi de' nostri tempi rimproverati a certi buoni scrittori della seconda metà del passato secolo. [...]
Tutte queste e simili locuzioni sono veri barbarismi, senza alcun bisogno tolti da linguaggio straniero, in tali modi affatto alieno dal nostro. Ma l'autore del Papiro crea improprietà, barbarismi e solecismi tutti suoi. [...]
Noi abbiamo fatte queste indicazioni non per norma de' giovani, i quali vogliansi mettere nella carriera di scrittori, poichè non crediamo potersene dare uno, che sia sì melenso da cedere a sì malvagio esempio; ma piuttosto per notare un singolar fenomeno, quale si è questo di un uomo non mancante nè d'immaginazione, nè di sentimento, che mentre ha tanta forza d'ingegno e di cuore da mettere in fremito l'anima di chi legge il suo romanzo o papiro, cade poi in sì brutta corruttela da farsi riputare, anzichè un uomo educato nelle lettere italiane, un abbandonato nipote degli Slavi o degli Ungri. Fortunatamente questo fenomeno è tanto raro, quanto intollerabile.
(I) Clelia, figlia di Metello, è innamorata di uno schiavo, figlio bensì di un Re cilice, stato amico di Metello, e che in un crudo frangente salvò la vita a lui, alla moglie e alla figlia allora bambina; ma che è stato compagno di Spartaco nella famosa insorgenza degli schiavi. L'autore fa parlare Metello a sua figlia di questa maniera: "Tu ami cotanto un nemico della patria! Ma se tu credi che un uomo coverto d'infamia, e forse di delitti, possa fare la tua contentezza; se a lui solo è permesso di rimenare la pace in un'anima così dolce e degna di comprendere la vera felicità; ch'egli sia tuo sposo felice! I miei lamenti cesseranno vedendo calmata la tua pace. Il tuo amore appagato, la tua giovinezza soddisfatta, mi riempiranno di gioja. Io anderò a trovarlo: io mi getterò a' suoi piedi, io trascinerò i miei bianchi capelli nella polvere per scongiurarlo ad abbandonare il partito de' ribelli, a venire a conoscere il vero bene d'essere amato da te, a venire a bearsi della tua presenza." Così l'autore fa parlare un padre, un principe del senato, uno de più grandi tra i Romani dell'età sua, il quale ha già promessa sua figlia in isposa a Lucullo!!